Sia ben chiaro: non si fa riferimento a specifiche strutture (politiche, industriali, commerciali, militari o quant’altro), ma ai due “Sistemi Paese” nel loro complesso e alle loro finalità strategiche.
Parliamo di Francia. Intorno allo “Stato” gravitano tutte le componenti produttive del Paese che da esso ricevono indirizzi coerenti, chiari e perentori e a questa consolidata regola, com’è lapalissiano, non si sottrae la filiera del “prodotto militare”.
Posto che (come in Usa e in altri Paesi avanzati, Italia compresa) l’export di materiali d’armamento è un grande business, in Francia esso è considerato “il grande business” a cui concorrono, in modo altamente integrato, tutte le strutture aventi causa, compresa quella squisitamente militare. Se dunque le FF.AA. statunitensi avvertono l’export di settore come un fastidioso tributo da pagare nel contesto della strategia politica della superpotenza, quelle francesi sono totalmente e con convinzione votate a supportare la penetrazione industriale nazionale nei mercati esteri. E armonicamente impegnate nell’impresa commerciale sono anche le componenti politica, legislativa, diplomatica, giudiziaria (anche!) e, ovviamente, quella industriale.
Questa “armonia d’intenti” (che si trasforma normalmente in una reale “aggressione” del mercato, anche in spudorato danno alla concorrenza soprattutto tedesca e italiana) prevede addirittura la legittima periodica migrazione di “lanciatissimi” dirigenti tecnico-amministrativi del ministero della Difesa nell’industria privata e viceversa. Questo flusso a due sensi che in Italia (e normalmente in tutti gli altri Paesi corrispondenti) è visto come atto potenzialmente corruttivo, in Francia è invece legittimato e normativizzato. Il magistrato in Italia persegue alti dirigenti di un’azienda nazionale per corruzione di corrispondenti stranieri in una competizione internazionale; il suo omologo francese non opera parimenti.
In estrema sintesi, nella competizione commerciale all’estero, il sistema francese adotta, senza alcuno scrupolo, tutte le misure ritenute più idonee per aggiudicarsi la commessa. Nella ristretta cerchia degli apparati militari più avanzati, le FF.AA. francesi sono addirittura additate come quelle dei “prototipi”, quelle cioè che, per scelta strategica nazionale, sono costrette a gestire anche piattaforme e sistemi realizzati “su misura” per gli acquirenti esteri (di tutti i livelli) e che per nulla contribuiscono (anzi su di essa gravano) alla missione di difesa nazionale.
L’ordine di scuderia statale francese (al di là del colore politico) in materia di prodotti d’armamento è dunque: vendere, vendere, vendere in qualsiasi modo, soprattutto a Paesi del così detto terzo mondo, in primis in Africa.
Ebbene, nei primi anni Novanta, come poteva il “sistema Italia” non dico “competere”, ma anche solo “cooperare” con il “sistema Francia” così strutturato?
E per l’Italia, invece? Solo un’arcinota verità: gli italiani (e usando il plurale si vuol comunque rendere merito a una consapevolezza che sembra si stia facendo strada) sono fortissimi nella loro singolarità, ma debolissimi (e talvolta pericolosi) nel lavoro di team. Ciò era ed è. E la scaltrezza alla Richelieu porta de natura i francesi ad approfittarne a mani basse.
Non deve dunque meravigliare se lo staff di Macron ha corretto il tiro di quello di Hollande, tornando all’ormai collaudatissimo schema di accordo con gli italiani:
– Soldi a metà (che garantiscono la vita del programma).
– Capo azienda italiano (il contentino): “contentino” abbinato a quello del riconoscimento del primato nella cantieristica da crociera, oggetto di tender in cui siamo molto bravi. Ma è un riconoscimento che poco bilancia quello che i francesi (additando il timore di trasferimenti di know-how alla Cina cui guarda come mercato Fincantieri) vorrebbero riservare a se stessi per cantieristica militare globale, dove: a) le commesse sono preordinate da tutti gli Stati; b) il portafoglio a venire si aggira sui 50 miliardi di euro per i prossimi 5/10 anni; c) il potere di coordinamento e di veto è da affidare alla ministra della Difesa francese.
– Sede sociale in Francia (visto che gli italiani vi rinunciano, essendo terrorizzati dall’idea di gestire un Ufficio amministrativo internazionale, alle prese con la farraginosa legislazione amministrativa e contabile nazionale e alla presenza di una magistratura molto attenta).
– Supporto granitico da parte dell’entroterra statale e industriale francese al programma.
– E… italiani in ordine sparso, in un perimetro che i francesi vorrebbero prefissare e nel quale non è malizioso arguire che il know-how che sviluppa Leonardo (ex Finmeccanica) è area sensibile dell’interesse nazionale italico anche verso qualsiasi partner, come dimostra l’esperienza storica anche… tra “alleati”.
Pertanto, anche se, il ventilato possibile nuovo accordo Italia-Francia in materia viene presentato come “tattico” (ovvero relativo ad alcuni specifici prodotti), in realtà esso è “strategico”, per cui l’Italia, nel giro di pochi anni, si gioca l’intero comparto che oggi la vede orgogliosamente ai vertici mondiali (almeno qualitativi) sia nel militare che nel civile. La Francia è un vero “sistema Paese”, l’Italia no e pertanto questa è destinata inevitabilmente a soccombere anche nella probabile nuova sfida.
Ma c’è anche qualcos’altro. Negli anni Ottanta in Italia apparve in tutta la sua evidenza l’inizio del “tramonto degli ingegneri” ai vertici delle aziende di settore ovvero di quei veri tecnici che, dopo essersi fatti le ossa negli uffici studi e progettazione e sulle linee di produzione, maturavano e venivano reindirizzati verso il management. Per i migliori, si aprivano le porte dell’alta dirigenza, fino ai vertici industriali… Basti ricordare la Fiat di Ghidella e Romiti. Al loro posto cominciarono a emergere quelli che simpaticamente potrebbero essere definiti i “generatori di chiacchiera” che, provenendo dagli uffici del personale (pomposamente divenute poi “risorse umane”) e, soprattutto, dagli uffici finanziari, conoscevano di larga massima la Fabbrica, ma non il Prodotto, né la “linea di produzione”, né le gioie e i dolori quotidiani del progettista, del tecnico e dell’operaio.
Furono quelli gli alti dirigenti che, assegnatari del 50% dei fondi italiani nei citati programmi di cooperazione militare, ai fini del maggior margine e delle ridotte responsabilità aziendali, decisero di girarli con contratti interni alle corrispondenti ditte estere, francesi in primis, le quali acquisirono, di fatto, l’intera proprietà intellettuale dei sistemi. La gran parte delle industrie italiane coinvolte (tutt’altro che seconde a quelle d’oltralpe) si trovarono così auto-marginalizzate nelle sole attività di assemblaggio (pomposamente definite di “integrazione”) e di produzione in serie, la cui entità decrebbe sensibilmente rispetto ai piani originari delle nazioni cooperanti e dei potenziali acquirenti, a causa del collasso dei bilanci militari di tutto il mondo post caduta del muro e progressiva emersione della crisi economica globale. Limitati settori italiani “di nicchia” (come ad esempio le artiglierie Oto-Melara, i siluri Wass, i sistemi di Guerra elettronica della Società elettronica, alcune aree radaristiche della Selex) riuscirono a sfuggire (almeno all’epoca) alla morsa francese grazie ad alcune dirigenze illuminate e all’abnegazione di alcuni ingegneri e tecnici di altissimo profilo.
Le FF.AA. italiane, per restrizioni di bilancio e per applicazione di successivi e riduttivi “Modelli di difesa”, abbassarono la guardia (depauperamento delle organizzazioni di vertice dell’area tecnico-amministrativa e degli Uffici di vigilanza industriale territoriale) rendendosi tardivamente conto che una consistente parte della “intelligenza” dell’industria nazionale di settore era definitivamente migrata oltralpe.
E per concludere, un sintetico cenno alla cantieristica navale:
– sia il comparto militare che quello da crociera, non detengono segreti militari strategici (diversamente da quanto si legge su alcuni giornaletti). Se segreti detengono, essi sono esclusivamente industriali, legati ai cicli di produzione;
– il problema industriale di settore si concentra in particolare nella capacità di efficientare il ciclo produttivo, abbassare i costi di produzione e penetrare commercialmente i mercati potenzialmente acquirenti;
– gli accorpamenti societari transnazionali, in definitiva, sottendono rischi esclusivamente occupazionali, di economia generale dei territori su cui insistono i diversi cantieri e dei rispettivi indotti.
Di sicuro a Carlo Calenda e a Pier Carlo Padoan, prima dell’11 e del 26 settembre sarebbe utile parlare con il Dott. Bono, la cui vasta conoscenza del passato, del presente, insieme alla sua perspicace capacità di individuare utili elementi per il futuro, porterebbero a un alto valore aggiunto per il prossimo “chi fa che cosa e come”; a partire dal perché viene indicata Florence Parly ministre des Armées come Coordinatrice generale del prossimo progetto industriale.
Tutto ciò prima che — rebus sic stantibus — la ministra Pinotti, per spirito di una cooperazione europeista femminilmente condivisa, ceda definitivamente il passo all’omologa francese (del cui curriculum — sicuramente noto a Bono — è utile leggere la sezione “ante nomina” nel giugno 2017).
(2 – fine)