C’è poco da sperare in un cambio di politica – quantomeno a breve o salvo eventi davvero eccezionali – da parte della Banca centrale cinese. E il perché ce lo mostrano questi due grafici, di fatto perfetta allegoria del mantra di “affamare la bestia” e sua certificazione. il primo grafico ci mostra come, in base ai dati ufficiali, il Total Social Financing, ovvero la quantità di credito immessa in circolo nell’economia, a settembre sia stato decisamente robusto, visto che è passato dal 1.929 miliardi di agosto a 2.205 miliardi di yuan, molto più della stima attesa di 1.550 miliardi e la lettura più forte da gennaio. Insomma, stando ai dati ufficiali, la Cina non sta contraendo la sua politica monetaria. Anzi. Semplicemente, pare più mirata all’interno del sistema e meno orientata sull’impulso creditizio globale, garantito dal circolante di dollari offshore immesso nel sistema finanziario e commerciale. Ma il secondo grafico ci mostra il trucco, decisamente degno del miglior Fausto Tonna e della sua contabilità creativa. Cosa hanno inserito, infatti, nel computo del Total Social Financing i cinesi nella loro revisione del metodo di definizione appena approvata? Proprio le emissioni obbligazionarie speciali dei governi locali, quelle di cui vi ho parlato ieri e che stanno facendo default come fossero birilli in una partita di bowling! Et voilà, il gioco è fatto: quello che sembra un total financing in contrazione dello 0,2% in settembre su base annua (arrivando al 10,6% totale), grazie alla revisione del metodo di calcolo, sempre a settembre appare in crescita dello 0,3% a 11,2% su base annua. Insomma, ufficialmente la Cina non sta contraendo la politica monetaria. Come dire al mondo, prendetevela con la Fed se la liquidità comincia pericolosamente a scarseggiare.
E ovviamente, quest’ultimo trend non potrà che peggiorare, se proprio la Federal Reserve continuerà nella sua politica di aumento dei tassi, la quale già nelle ultime settimane ha portato a una prima fiammata a livello globale dei rendimento obbligazionari. E contemporaneamente, dalla Ckgsb Business School di Pechino, è arrivata la conferma: i 300 dirigenti di piccole e medie aziende totalmente private intervistati in una ricerca demoscopica hanno infatti detto chiaramente che le condizioni di business attuale in Cina sono le peggiori di sempre, aggravate di fatto anche dai primi ricaschi reali della guerra commerciale. E questi due grafici danno la conferma sia del trend reale che del grado di disperazione del mondo, visto che a fronte di una palese ammissione di doppiezza delle autorità cinesi, nessuno pare né fiatare, né fare un plissé. La ragione? La “bestia”, intesa come sistema finanziario, ha bisogno di nuovo impulso creditizio cinese come dell’aria che respira e che già scarseggia. Quindi, alla Pboc possono anche dichiarare che la Terra sia piatta o l’acqua asciutta: nessuna avrò di che ridire. Almeno per ora.
E, non a caso, la stampa al di fuori dell’Asia non fa cenno ai tracolli dei mercati azionari o ai default obbligazionari tamponati in silenzio dalla Stato: non sta accadendo nulla, va tutto bene. E invece, i due grafici finali ci dicono che stando ai dati diffusi ufficialmente lo scorso venerdì, non solo l’economia cinese è in rallentamento (ovvio, rallentare al 6,5% farebbe gola a tutti, ma le cose vanno viste in prospettiva), ma se il dato macro “reale” parla di una striscia negativa ormai dal 2015, il secondo grafico ci dice che in base a tutte le metriche principali, siamo di fronte ai peggiori risultati dal 2009. Ovvero, dalla crisi finanziaria. E attenzione, perché a settembre contemporaneamente a questi dati, quello dell’inflazione ha segnato un +2,5% su base annua. Cosa significa? Che l’economia-motore del mondo sta flirtando con una leggera ipotesi di ingresso in stagflazione relativa, il tutto in piena fase di aumento delle pressioni ribassiste sulla crescita.
Nulla che lasci intravedere i prodromi del mitologico e tanto temuto hard landing, chi solo oggi avanza questa ipotesi è un allarmista in cerca di titoli e visibilità, ma un combinato che, se posto in relazione alla politica monetaria col contagocce della Pboc e con i rischi connessi a un mercato lasciato per ora in caduta libera “controllata”, potrebbe creare dei rischi potenziali. Il primo, quello che qualcosa vada fuori controllo, un’ipotesi che non si può escludere neppure nella ultra-pianificata economia e società cinesi. E attenzione, perché un primo ricasco a livello di tensione sociale è già stato innescato dal crollo del valore degli immobili, visto che a Shangrao, la scorsa settimana, sono scoppiate violente manifestazioni di piazza fra proprietari di casa e polizia.
Il motivo? Aver scoperto che a chi intende comprare case oggi nel comparto residenziale Xinzhou Mansion viene offerto lo sconto del 30% rispetto al prezzo pieno pagato da loro non più tardi di un anno fa. In cinese si chiamano fangnao, per ora sporadici, ma che potrebbero fungere da potenziale fertilizzante per rivendicazioni sociali più profonde e che potrebbe contagiare, oltre ai grandi insediamenti urbani, anche le aree rurali sempre più abbandonate a se stesse. E, dulcis in fundo, un qualcosa che può avere una ricaduta immediata anche per una delle industrie più importanti dell’economia europea, quella automobilistica: le vendite a settembre sono letteralmente crollate in Cina, un -12% su base annua che si traduce in “sole” 2,06 milioni di unità vendute, il calo maggiore mai registrato. Calcolando che proprio sul mercato del Dragone puntavano tutti i grandi marchi, Usa ed europei, per tentare il rilancio in grande stile, ora che sono ufficialmente terminate le sovvenzioni a livello statale e federale volute da Obama e mantenute da Trump, la prospettiva non appare affatto rosea.
Attenzione alla Cina, l’epicentro del mondo (e del caos potenziale) è lì, anche se New York resta certamente più mediatica. E decisamente più fotogenica. E con le elezioni di mid-term ormai alle porte, la Casa Bianca dovrà inventarsi qualcosa per intercettare il voto della middle-class, anche alla luce di questa mossa cinese rispetto alla politica monetaria. Le prime mosse? Attraverso il proxy russo, la minaccia di uscire dal Trattato di non proliferazione nucleare, una vera manna per il complesso bellico-industriale Usa, capace anche solo a livello di percezione di garantire un sostegno a Wall Street, ora che verrà a mancare l’architrave onnipotente del comparto tech e delle mitiche Faang. Secondo, proprio la minaccia di non togliere o allentare il regime tariffario contro la Cina in vista dell’incontro con Xi Jinping al G20 di Buenos Aires del mese prossimo, scommettendo fino in fondo sulla capacità del regime di esenzioni fiscali ancora in atto di controbilanciare l’effetto di erosione del potere d’acquisto degli americani già in atto e pericolosamente in agguato in vista dello shopping natalizio.
War games, al loro meglio. E che ci riguardano molto più di quanto la realtà ci faccia percepire.
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