GOLDMAN SACHS/ Tangenti e contro-diplomazia in Cina: la strana crisi della banca più potente del mondo

- Nicola Berti

Scandalo tangenti in Malaysia e accuse di diplomazia parallela in Cina: la Goldman Sachs è improvvisamente nell'occhio del ciclone sui mercati e nel mirino di Donald Trump

donald_trump_6_bandiera_lapresse_2017 Donald Trump (Lapresse)

La Goldman Sachs è nell’occhio del ciclone: anzi di due cicloni contemporaneamente, come si conviene alla Banca Più Potente del Mondo. Monta anzitutto lo scandalo attorno a 1MDB: il fondo sovrano malaysiano che la Goldman ha assistito negli anni scorsi nel collocamento di 6,5 miliardi di dollari di bond. Che però non hanno finanziato lo sviluppo della “tigre” asiatica, ma sono finiti in grossa fetta a tangenti riciclate (anche su conti dell’ex premier di Kuala Lumpur, Najib Razak) oltreché in 600 milioni di commissioni nette per la regina di Wall Street. E niente indizi o teoremi: lo ha messo nero su bianco un ex senior partner della banca — Tim Leissner — che da reo confesso sta collaborando con il Dipartimento della Giustizia americano.

La Goldman è intanto sempre più affannata a difendersi dichiarandosi vittima delle proverbiali “mele marce”. È emerso infatti che lo stesso Lloyd Blankfein — Ceo dal 2006 al settembre scorso e tuttora chairman della banca — ha avuto contatti diretti con il dossier 1MDB. E non più tardi di ieri la “World Investment Bank” è stata costretta a calare sulle pagine del Financial Times una delle ultime carte disponibili su questo tavolo: quella del partner italiano Andrea Vella — co-responsabile con Leissner delle operazioni asiatiche Goldman — messo in aspettativa dopo lo scoppio dello scandalo 1MDB. E parecchio porta ora a ipotizzare che, a differenza di Leissner, Vella possa finire per addossarsi in qualche misura le responsabilità del caso, delegittimando le affermazioni dell’ex collega e scagionando i vertici della banca.

Blankfein, nel frattempo, ha lasciato giusto un paio di mesi fa (perché proprio ora, si chiede Wall Street?). E la staffetta col nuovo Ceo David Solomon è maturata esattamente dieci anni dopo il crac di Lehman Brothers. Una coincidenza curiosa, ben oltre ogni un suggestivo effetto-nemesi. Il micidiale default di Lehman fu infatti deciso da Hank Paulson, predecessore diretto di Blankfein in Goldman: chiamato (tardivamente) nel 2006 dall’amministrazione Bush a segretario al Tesoro per tentare uno sgonfiamento pilotato della bolla fuori controllo della finanza derivata. Se Paulson non si è mai scrollato di dosso il sospetto di aver regolato qualche conto fra big di Wall Street sulla pelle dei mercati finanziari globali, il Ceo emerito di Goldman è tornato proprio in questi giorni sotto i riflettori: sempre sullo scacchiere asiatico, sempre su uno sfondo di polemica inattesa. Quasi un secondo “ciclone” attorno alla banca, in forte odore di collegamento politico con il caso 1MDB. Entrambi i casi scoppiati giusto quando gli Stati Uniti hanno attraversato le turbolenze delle elezioni midterm e tutti stanno riaggiustando posizioni e tiri in vista del secondo biennio della presidenza Trump.

“Il Presidente non ha bisogno dell’intermediazione di Goldman Sachs, Wall Street deve smetterla di intromettersi nei negoziati con la Cina”. Così venerdì sera Peter Navarro, assistente di Donald Trump per il commercio internazionale. Un “falco” protezionista che sta difendendo l’escalation delle tariffe doganali contro Pechino. Ma la polemica è apparsa tutta politica e tutta interna agli States: rivolta contro due “colombe anti-protezioniste” targate Goldman. Contro lo stesso Paulson (eminenza grigia dello Strategic Economic Dialogue, vera lobby liberoscambista sulla rotta Usa-Cina) e contro l’ex Presidente John Thornton, oggi ascoltato opinion-maker accademico.

“Basta con i miliardari globalisti che fanno diplomazia parallela”, ha tuonato Navarro. È curioso, tuttavia, che proprio dal sancta sanctorum del turbo-globalismo finanziario The Donald abbia pescato a piene mani per il suo staff. Da Goldman viene il segretario al Tesoro Steve Mnuchin, mentre il primo capo dei consiglieri economici della Casa Bianca trumpiana è stato Gary Cohen, fino a due anni fa numero due di Blankfein.

Per la verità la prima scelta di Trump per il Tesoro sarebbe stata Jamie Dimon, tuttora capo di JPMorgan Chase. E non è mai stata un mistero la vicinanza di Goldman (radicata nella comunità ebraica liberal) ai democratici Usa: concretamente testimoniata dai corposi aiuti finanziari alle campagne di Barack Obama e poi a quella di Hillary Clinton. La “strana crisi” della Goldman Sachs al giro di boa della “strana presidenza” Trump sembra un caso appena cominciato, ancora tutto da studiare e niente affatto circoscritta ai ricchi e famosi di Manhattan.

P.S.: La “Lex” — rubrica-oracolo del Financial Times sui fatti di mercato — ha pensosamente suggerito alla Goldman di rimeditare la scelta di vent’anni fa di quotarsi in Borsa. Non avrebbe affrontato meglio le seccature odierne con la vecchia, ottocentesca struttura chiusa di partnership? Una “confraternita” di partner forever (fra questi c’è anche il presidente della Bce, Mario Draghi): lontano dai fari fastidiosi del mercato, dalle regole su trasparenza, corporate governance, integrità eccetera. Che evidentemente vanno bene solo se applicate agli altri: ai clienti di Goldman e delle sue sorelle. Mai ai master del marcato.





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