Vi siete mai chiesti come mai si parli così poco del Giappone, in materia economica? Eppure, è Paese membro del G7, industrializzato, all’avanguardia tecnologica, elemento di contrappunto geopolitico occidentale in Asia. E, soprattutto, precursore delle politiche espansive tanto di moda negli ultimi anni. Addirittura, come la sua Abenomics, caso di scuola. Ma, soprattutto, ultimamente divenuto esempio edificante e fulgido di come l’autarchia rispetto al debito pubblico sia una valida alternativa alla dittatura dello spread e dei mercati. Eppure, occorre essere sinceri: del Giappone si parla soltanto quando arriva un terremoto. E, fortunati loro, quasi sempre per tessere le lodi di strutture anti-sismiche efficaci. Perché, a vostro modo di vedere?
Perché sul finire di ottobre, nessuno ha dedicato lo spazio che meritava all’ennesimo voltafaccia della Bank of Japan, la quale nel board ha deciso che il Qe andrà avanti con le stesse modalità e lo stesso controvalore di acquisti e che l’ennesima deadline per cominciare il cosiddetto taper, il ritiro graduale degli stimoli, fissata la scorsa primavera ad aprile 2019, verrà disattesa? Forse perché la scusa dell’inflazione che ancora non è del tutto soddisfacente comincia a perdere un po’ di credibilità? No, semplicemente perché il Giappone rappresenta il trailer del film dell’orrore che ci attende, avanti di questo passo. Tokyo con la sua follia espansiva è quello che gli anglosassoni definiscono poster boy, il ragazzo-copertina, della completa distruzione del concetto di mercato, giusto o sbagliato che sia ritenuto, distorto o meno che sia percepito: siamo di fronte al paradosso di un modello che, per piegare alle proprie necessità le forze regolatrici degli scambi finanziari e delle loro dinamiche, arriva all’annientamento de facto del concetto stesso di domanda e offerta. Non esiste più una ratio che mostra ciò che è funzionale e ciò che è disfunzionale in base a principi macro, esiste la Banca centrale – leggi lo Stato – che non solo regola tutto ma assorbe tutto, compra tutto, decide tutto.
Ideologicamente, filosoficamente, ammetto che qualcuno possa essere tentato da questa deriva di autoritarismo statalista, di pianificazione totale delle cosa pubblica a scapito del libero mercato (alla faccia della sussidiarietà), ma occorre, come sempre più spesso bisognerebbe fare, separare le reazioni di pancia all’indigestione criminale di azzardo morale del 2008 dalla razionalità. Non fosse altro perché, al netto di tutto, i risultati concreti di certe politiche sono palesemente catastrofici. E, addirittura, ben prima della piena attuazione del piano faustiano di sovietizzazione del mercato, la quale si sostanzierà con l’estremizzazione terminale del keynesianesimo che risponde al nome di helicopter money: già adesso, l’economia giapponese non è in stallo. È in caduta libera, se prendiamo gli indicatori maggiormente qualificanti all’interno di una dinamica di espansione monetaria. Volete la riprova? Eccola. Questi tre grafici fanno riferimento agli ultimi dati macro pubblicati l’altro giorno proprio dalla Bank of Japan e andrebbero portati in giro per il mondo come plastico esempio del fallimento totale della politica che sottende culturalmente, prima che a livello economico, l’Abenomics.
Il primo ci mostra le spese personali nel mese di settembre, un indicatore-chiave per un Paese dove è in atto l’esperimento più estremo di sempre di stimolo dell’inflazione. Bene, dopo il confortante +2,8% su base annua di agosto, ecco che arriva la mazzata: -1,6% su base annua, contro le attese degli analisti di +1,5%. Ora, i difensori a oltranza dell’Abenomics hanno immediatamente addossato l’intera responsabilità del dato all’incidenza negativa che fenomeni meteorologici e naturali (fra cui tifoni che hanno colpito Osaka e Tokyo e terremoti nella parte nord di Hokkaido) hanno avuto sulla propensione agli acquisti dei cittadini, ma si tratta dell’ennesima, patetica scusa per non ammettere la realtà. Per due motivi.
Primo, i terremoti non sono certamente prevedibili, ma in Giappone non sono nemmeno un’eccezione assoluta, anzi sono parecchio preparati al riguardo. Mentre il tifone in arrivo era noto ai meteorologi da tempo. Quindi, gli economisti avrebbero dovuto mettere in conto la sua eventuale azione di compressione dei consumi, quando hanno avanzato l’analisi del +1,5% a settembre. Tanto più che, per quanto violento, non si è rivelato più distruttivo del previsto e ha avuto un’incidenza temporale limitata nello stravolgimento della quotidianità giapponese. Secondo, ce lo mostra il grafico. Perché nella parte riquadrata si notano parecchie stanghette rosse che vanno verso il basso, ovvero le letture negative delle spese personali nel corso dei trimestri su base mensile: sono tante. E quasi tutte in sequenza, salvo poi il classico rimbalzo del gatto morto, il più delle volte legato a manovre di stimolo, stagione di saldi o festività o altre coincidenze favorevoli e limitate nel tempo. Insomma, l’Abenomics – nonostante il diluvio di soldi buttati al vento dalla stamperia della Bank of Japan – non serve a stimolare i consumi, campa di una tantum creati ad arte, ma, in quanto tali, incapaci di incidere sistematicamente e strutturalmente. Altro che lotta alla deflazione.
Ma veniamo ora al secondo e al terzo grafico, i quali mettono il carico da novanta su questa sgradevole realtà. Il primo dei due compara l’aumento esponenziale del bilancio della Banca centrale a seguito degli acquisti onnivori in seno al Qe con la propensione al consumo dei cittadini: la divaricazione appare talmente palese da non meritare commenti o spiegazioni ulteriori. Ed ecco che il terzo grafico svela però il segreto di Pulcinella che occorre mascherare il più possibile, al fine di evitare che il vaso di Pandora venga scoperchiato del tutto: esiste, casualmente, una correlazione perfetta fra espansione dello stato patrimoniale della Bank of Japan e corso rialzista dell’indice Nikkei. Insomma, il Qe con gli occhi a mandorla, l’Abenomics che tanto piace ai keynesiani e alla sinistra nelle sue mille sfumature e gradazioni, finora ha sortito un unico effetto diretto e innegabile: portare l’indice principale del mercato azionario nipponico ai massimi dal 1991.
Mi spiace, per quanto si cerchi di rigirare la frittata, la realtà è questa: negli Usa come in Giappone l’operatività delle Banche centrali ha fatto e ottenuto poco o nulla per l’economia reale, il famoso 99% delle società in nome del quale promettono di battersi i sovranisti tanto in voga, ma si è rivelata un balsamo miracoloso per le Borse, con Wall Street che infrangeva un record alla settimana fino a un mese e mezzo fa e il Nikkei che non raggiungeva questi livelli da trenta anni. E l’Europa? L’Europa è riuscita, quantomeno, a temperare questa connaturata e ontologica distorsione oligarchica delle politiche espansive, chiaro ed ennesimo esempio di come solo ciò che viene millantato come di sinistra può operare politiche dichiaratamente di destra (economicamente parlando, in senso deteriore e non certo “austriaco”) evitando i fischi e le manifestazioni di massa e, anzi, ottenendo Nobel e applausi a scena aperta.
La Bce, infatti, ha operato attraverso le aste Ltro e T-Lltro per cercare di sbloccare il meccanismo di trasmissione del credito, ha comprato bond corporate per finanziare l’economia reale e non gravare sul sistema bancario, ha evitato come la peste di intervenire direttamente sul mercato azionario attraverso l’acquisto di Etf e, soprattutto, ha acquisto debito sovrano pro-quota, ma non arrivando al delirio giapponese della politica di controllo diretto sulla curva dei rendimenti. Insomma, se esiste una politica espansiva che ha limitato i danni e offerto un supporto – ancorché distorsivo sul lungo periodo, come dimostra il panico da fine del Qe – è proprio quella della Bce, temperata e modellata sul compromesso fra rigorismo e stimolo, cercando di evitare eccessi che non consentano un ritorno. Il Giappone, invece, è ormai fuori gioco. Il mercato obbligazionario è morto, devastato da un intervento perenne e costante della Banca centrale che ha azzerato i volumi reali di scambio sui titoli di Stato. Mentre quello azionario, attraverso gli acquisti di Etf, vede sempre lo Stato, attraverso la Bank of Japan, fra i primi dieci azionisti di circa metà delle aziende quotate sul Nikkei. Un’aberrazione che porterà il Paese a qualcosa di peggio della lost decade deflattiva che proprio l’Abenomics si riprometteva di sconfiggere per sempre.
Quale sia il livello di dipendenza di Wall Street, intesa come entità finanziaria e non solo come piazza equities, dalle politiche della Fed, è noto anche ai ciechi. Poi, c’è la via europea. Che qualche irresponsabile ora vorrebbe far deragliare e dirottare verso lidi nipponici o statunitensi, in ossequio alla nuova alleanza con Washington che ci vede esentati dalle sanzioni commerciali con l’Iran per sei mesi, ma non si sa a quale prezzo (e dubito sia solo il via libera al Tap) e in totale disprezzo delle regole diplomatiche e della sovranità – alla faccia della coerenza nominalistica – del Parlamento. Attenti a ciò che volete e invocate: potreste ottenerlo.