Stavolta le elezioni non c’entrano: lo scontro giudiziario tra il gruppo Fininvest-Mediaset e il colosso francese Vivendi va avanti per conto suo, con ottime possibilità di vittoria per gli italiani, che punterebbero a un risarcimento di 500 milioni di euro: l’ultimo tentativo di mediazione è fallito ieri ed oggi è fissata a Milano la prima udienza del processo civile. Ci vorranno forse anni per la sentenza, se non interverrà una nuova mediazione nel frattempo, ma la strada dello scontro è ufficialmente imboccata.
Se il dissenso fosse a parti inverse, con gli italiani “invasori” in Francia, non ci sarebbe alcun dubbio: gli stranieri verrebbero rigettati dal sistema istituzionale francese come dei corpi estranei e senza troppi complimenti. Carte bollate, sentenze della magistratura, ispezioni di polizia, pressing di ogni tipo, sfrontati, aggressivi in nome di un dichiarato nazionalismo difensivo. Può piacere o meno, ma accadrebbe così. Da noi invece, si sa, il nazionalismo è praticato solo a chiacchiere ma dalle disinvolture della Lactalis nella gestione di Parmalat agli ostracismi contro l’Enel in Francia fino al clamoroso “niet” di Macron all’acquisizione piena dei cantieri navali di Saint Nazaire da parte dell’italiana Fincantieri, siamo bravissimi a prendere schiaffi senza reagire.
Stavolta, però, il bretone Bollorè – un signore che trae dalla gestione dei porti mercantili in Africa il grosso del proprio business, per dire che è ben abituato ai mercati ostili – ha probabilmente esagerato con l’arroganza. Ma per capire a che punto siamo e dove ci troviamo, ricostruiamo le puntate precedenti.
I francesi di Vivendi avevano sottoscritto l’8 aprile 2016 un contratto preliminare per l’acquisizione di Mediaset Premium, la controllata di Mediaset nel settore della pay-tv, sottoponendolo solo alla verifica contabile sulla congruità del prezzo richiesto dai venditori. Annuncio in pompa magna, grandi scenari sulle bellissime prospettive dell’iniziativa comune. Prosit. Tre mesi dopo, colpo di scena: Mediaset riceve una comunicazione in cui Vivendi si rimangia tutto e propone un’alternativa. Anziché le vecchie clausole – cioè l’acquisto da parte dei francesi del 3,5% di azioni Mediaset e dell’89% di Mediaset Premium, a fronte del conferimento a Mediaset del 3,5% di azioni Vivendi, con l’impegno da parte francese a non superare in nessun caso neanche comprando in Borsa il 5% del capitale Mediaset, propongono tutta un’altra cosa. Cioè: a fronte del conferimento a Mediaset del 3,5% di azioni Vivendi, i francesi intendono prendere solo il 20% di Mediaset Premium, e invece pretendono il 15% di Mediaset, attraverso un prestito obbligazionario triennale.
Tanto per non lasciare dubbi, il capo di Vivendi e braccio destro di Bollorè, Arnaud De Puyfontaine, specifica che in ogni caso “non intende onorare il contratto stipulato”. È questo il voltafaccia impugnato da Mediaset in tribunale, di cui si inizia a discutere in udienza oggi, dopo il fallimento – anch’esso determinato dai francesi – del tentativo di mediazione arbitrale che, come sempre, il giudice civile aveva chiesto alle parti di fare.
Ma c’è ben di più e ben di peggio. Nel botta-e-risposta delle trattative che si aprono dopo il blitz dei transalpini, Vivendi formalizza in luglio le ragioni del suo ripensamento, con un comunicato in cui dice in sostanza che già il precedente 21 giugno aveva informato il management di Mediaset di aver riscontrato significative differenze nelle analisi dei conti Premium. La notizia influisce sulla quotazione in Borsa del titolo Mediaset, che scende. Di lì a poco – quando, precisamente, lo stabilirà la Procura di Milano che indaga per aggiottaggio contro Bollorè e De Puyfontaine – Vivendi comincia a comprare azioni Mediaset in Borsa, annunciando man mano, ma a distanza ravvicinata, le soglie raggiunte e attestandosi alla quota attuale del 28,8%. Fininvest, che controllava all’inizio dell’offensiva oltre il 34% del capitale del gruppo televisivo e quindi gestiva già la cosiddetta “quota di blocco” che permette a un azionista di governare l’assemblea straordinaria, reagisce investendo su Mediaset 154 milioni è portando la sua quota su fin verso il 40%. Vivendi ha speso 1,2 miliardi per questa sua scalata, peraltro inutile. E i suoi vertici si trovano sospettati di aggiottaggio, cioè di essersi adoperati per far crollare il prezzo dei titoli Mediaset, con le notizie diffuse sul fronte Premium, al fine di agevolare la propria scalata alla casa madre. Peraltro Bolloré è stato condannato dall’Agcom a trasferire il 18,8% delle sue azioni Mediaset in un blind trust entro il 19 aprile per “sterilizzarle” rispetto all’uso che ne potrebbe fare in assemblea dei soci.
Per la cronaca: qualche mese fa pareva che i francesi, per chiudere il contenzioso, fossero disposti a riconoscere a Mediaset un valore complessivo di circa 760 milioni per tutta Premium mettendo in campo però anche le finanze di Tim, di cui la stessa Vivendi controlla poco più del 23% ed è quindi il primo azionista, che avrebbe dovuto acquistare contenuti da Mediaset. Anche qui: spregiudicatezza su spregiudicatezza, tanto è vero che sia i consiglieri di minoranza di Tim che la Consob hanno storto il naso di fronte all’ipotesi di un accordo che puntava a usare i soldi di Tim per risolvere una grana del socio di riferimento e la cosa è sfumata.
Ancora una chicca: in mezzo a tutto questo pasticcio, Dailymotion, il portale web controllato al 100% dal gruppo francese, ha continuato a usare on-line contenuti video di Mediaset, in particolare l’Isola dei famosi, senza autorizzazione. Mediaset si è appellata al Tribunale delle Imprese e ieri i giudici hanno ordinato al portale di rimuovere immediatamente tutti i video con immagini dell’Isola dei famosi caricati sul sito senza autorizzazione, imponendo anche una penale di 10mila euro per ogni giorno di ritardo nella cancellazione dei video.
Sullo sfondo, l’impasse industriale in cui rischia di finire Tim, che non c’entra nulla in questa vicenda se non per il fatto di ritrovarsi un socio di riferimento spericolato e discusso come Vivendi. Già, perché in questa fase in Italia è in corso la realizzazione della rete di telecomunicazioni in banda ultralarga da parte di Open Fiber, società costituita dall’Enel con la Cassa depositi e prestiti. Questa rete nasce oggi ed è, ovviamente, molto più avanzata sul piano tecnologico di quella di Tim, che in vari modi potrebbe risentirne oppure essere coinvolta nel progetto se mettesse in gioco la sua, di rete. Ma trovare un accordo tra l’ex Sip, finita purtroppo in mani francesi, e un’azienda di Stato che deve essere sollecita, innanzitutto, degli interessi pubblici appare, in queste condizioni, oltremodo difficile, e il tempo non gioca a favore di Tim.