Scusate l’assenza, ma è stata forzata. L’intervento cui dovevo sottopormi è andato bene, ma, come preannunciatomi, il decorso post-operatorio si sta rivelando pesante. Insomma, non sono ancora in forma, ma conto la settimana prossima di rientrare nei ranghi almeno al 60%. Spero 70%. Mi premeva, però, dire – anzi, scrivere – due parole alla vigilia del voto. Non sui partiti o sui programmi, glisso l’argomento a piè pari per carità di Patria, ma su cosa aspettarci, a livello interno unicamente come riverbero del quadro globale che si sta delineando con preoccupante velocità nelle ultime ore: mi sbaglierò, ma molto di quanto accadrà lunedì sui mercati sarà intuibile più dal volume di opzioni put sul Dax, l’indice di Francoforte, alla riapertura della settimana prossima che dagli exit poll o dalle maratone televisive.
Già, perché i mercati – per quanto vi dicano qui e là – se ne fregano bellamente del risultato delle nostre urne, lo danno per scontato. O non vincerà nessuno e allora partirà la tarantella del governo di larghe intese – guarda caso, benedetto anche da Pietro Grasso, salvo rettificare fuori tempo massimo – oppure, se davvero i 5 Stelle avranno i numeri necessari per salire al Colle e chiedere un mandato, almeno esplorativo, basteranno quattro colpi di spread bene assestati per far rientrare Di Maio e soci nel loro alveo naturale. Ovvero, l’opposizione.
Diverso è vedere invece su cosa scommetteranno i mercati riguardo il voto e lo scrutinio finale dei 464mila iscritti della Spd tedesca rispetto al referendum interno sulla Grosse Koalition, previsto anch’esso domani, dopo che l’altro giorno la Cdu di Angela Merkel ha dato via libera, con tanto di presentazione dei ministri. Certo, la Cancelliera ha concesso l’impossibile alla minoranza interna (e infatti un sondaggio interno ieri parlava del “Sì” al 66% di probabilità), di fatto preannunciando un passo indietro che non tarderà a venire (sicuramente prima della scadenza naturale del mandato), ma la tentazione del salto nel buio controllato potrebbe essere alta. Perché, sempre forse, la via migliore per instradare l’Italia verso un destino di rigore in stile Mario Monti ma molto più rigido potrebbe passare proprio da una crisi tedesca che spaventi davvero le Borse e faccia traballare i rendimenti.
Per quanto infatti Silvio Berlusconi millanti ruoli taumaturgici da mediatore/badante dei sovranismi anti-europei dei suoi alleati, a Bruxelles certi toni hanno fatto drizzare le antenne, così come alcuni sondaggi riservati. Con il Pd formalmente fuori dai giochi (ovviamente, in tal senso, la speranza è l’ultima a morire, come dimostra il coniglio dal cilindro della risoluzione del caso Embraco da parte del ministro Calenda, preannunciato ai più scafati dalla strana gitarella a Bruxelles di una delegazione di dipendenti giovedì), il fronte europeista deve sperare in un exploit della Bonino da giocare come jolly guastatore e in un’ingovernabilità tranquilla, parafrasando Mitterand, non a caso formula – “forza tranquilla” – riesumata da Gentiloni proprio per definire il suo partito.
E Macron sarebbe pronto a fare a meno della Merkel? Senza dubbio. Tanto più che Angela è stata scaricata dal Dipartimento di Stato in quanto non più affidabile, dopo le troppe aperture verso un ammorbidimento delle sanzioni contro la Russia e, in generale, dell’atteggiamento nei confronti di Mosca, anche in sede Nato. E in tal senso, guardate questa infografica, ci mostra come l’esercito tedesco sia, di fatto, pressoché totalmente impreparato all’azione: solo 39 jet Eurofighter sono pronti all’uso in battaglia su 128, mentre per quanto riguarda i Tornado siamo a 26 operativi su 93. Avendo affidato la difesa all’Spd ed essendo l’Spd ostaggio dell’ala sinistra che ha costretto Martin Schulz all’addio, pensate che Berlino metterà mano a budget e surplus per spese militari?
Non certo con la Grosse Koalition che si sta prefigurando. Se invece un bello shock facesse spaventare il Paese dell’ontologica e teutonica stabilità, magari qualcuno con una coscienza più atlantica potrebbe prendere le redini dei dicasteri che contano. E prendere le decisioni ad hoc per una politica da warfare di medio termine, quantomeno di retroguardia in un primo momento, sul fronte Est contro la Russia. Il che significa armamenti Usa da vendere a chi ne avesse bisogno.
E non pensiate che il mio sia complottismo, visto che proprio giovedì Donald Trump ha dato il via libera alla vendita di 210 missili anti-aereo Javelin e 37 lanciarazzi all’esercito ucraino, già dotato di armamento leggero dal Pentagono nei mesi scorsi. D’altronde, direte voi, occorre difendersi visti i toni utilizzati sempre giovedì da Vladimir Putin nel suo discorso sullo Stato dell’Unione, nel quale ha presentato il missile a propulsione atomica non intercettabile e i sottomarini invisibili dotati di droni.
Date retta a me, della Russia occorre aver paura di quanto vedete nel grafico qui sotto, ovvero del fatto che la Banca centrale moscovita ha superato quella cinese nell’acquisto e nell’accumulazione di oro fisico: in tempi di criptovalute e Bitcoin, dovrebbe far riflettere. E a parecchio.
Insomma, non voglio deludervi o dirvi che il vostro voto vale come il due di picche, ma, ora come non mai, il voto italiano è un voto europeo: lo ha detto Gentiloni in una recente intervista, mi pare a Repubblica o La Stampa. E un voto europeo, in tempi di Russiagate che corre, elezioni di medio termine non più così lontane ed economia che sta svelando il suo vero volto, significa voto statunitense. Loro non interferiscono come gli hacker russi, fanno in modo che le cose accadano e basta. La quasi contemporaneità del voto con l’anniversario della strage di via Fani e del rapimento di Aldo Moro, in tal senso, mette un po’ i brividi. Perché ho questa certezza di urgenza?
Ci sono almeno quattro segnali, chiarissimi, di una possibile accelerazione della crisi finanziaria in incubazione. Temo, accelerazione indotta. Primo, ce lo mostra questo grafico, al quale non aggiungo commenti, ma solo una spiegazione: quando Bush impose dazi del 30% sull’acciaio nel 2002, ecco cosa accadde agli indici azionari Usa.
Secondo, i tonfi delle Borse di ieri non sono dipesi soltanto dall’aggravarsi della guerra commerciale globale decisa dalla Casa Bianca, ma anche dalle parole di Haruhiko Kuroda, presidente della Bank of Japan, quando in Europa era già notte e il Nikkei aveva aperto giù dell’1,8% sulla scia di Wall Street: «Io e i membri del policy board pensiamo che i prezzi si muoveranno attorno al 2% nell’anno fiscale 2019, quindi è normale che in quel periodo cominceremo a dibattere anche sull’uscita dal Qe». Boom, i mercati sono talmente sani, robusti e bilanciati che solo l’idea di una discussione preventiva di exit strategy dall’Abenomics tra oltre un anno (la riunione incriminata sarebbe infatti quella dell’aprile 2019) ha fatto immediatamente crollare il Nikkei a -3% e collassare il cross dollaro/yen. Terzo, ce lo dice questo grafico, il quale riassume pienamente tutta la drammaticità e l’emergenzialità del momento a livello globale: il castello di carte sta per crollare, miseramente, perché l’impulso creditizio cinese che finora ha retto – da solo – il baraccone sta perdendo forza sotto i colpi di un’economia reale che per ora ha la tosse ma che potrebbe covare ben altra patologia.
Quarto, ce lo dice silente l’ultimo grafico: ogni volta che la Fed ha aperto un ciclo di normalizzazione dei tassi, si è arrivati a un evento di crisi finanziaria. Peccato che in passato non ci fossero tutte le attuali criticità in atto contemporaneamente, quindi ciò che storicamente richiedeva due anni di incubazione e contrazione – ovvero la formazione dei vari tantrum, a partire da quello dell’indebitamento in dollari dei mercati emergenti – ora potrebbe accadere in sei, otto mesi. Soprattutto se Powell manterrà la promessa fatta l’altro giorno in audizione giurata, ovvero almeno quattro ritocchi all’insù da qui a fine anno.
E tutto si può desiderare tranne che una Germania non allineata sul nuovo maccartismo Nato che stimola il warfare (ancora di salvezza di ogni situazione disperata) o, peggio, un’Italia in mano a fuori di testa incontrollabili. A meno che, come vorrebbe una certa vulgata, alcuni ribelli pauperisti, come li chiama qualcuno, non siano lì proprio su mandato. Ma questa è un’altra storia e, francamente, la trovo ben poco credibile. Per intanto, buon voto. Io, per la prima volta in quasi 45 anni, me ne resterò a casa. Citando Diego Abatantuono in una delle scene finali di Mediterraneo, avranno anche vinto loro, ma non mi avranno come complice. Tanto, il disastro post-2008 imporrà le sue regole, le sue politiche e i suoi governi. Non le urne. Alla settimana prossima, degenza permettendo.