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Home » Economia e Finanza » Borsa e Spread » SPY FINANZA/ Altro che dazi, ecco di cos’ha davvero paura Wall Street

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SPY FINANZA/ Altro che dazi, ecco di cos’ha davvero paura Wall Street

I grandi giornali spiegano l'andamento negativi di Wall Street con il timore di una guerra dei dazi. In realtà, è altro a far scendere la Borsa, dice MAURO BOTTARELLI

Mauro Bottarelli
Pubblicato 4 Aprile 2018
Wall_Street_Lapresse

Wall Street (LaPresse)

I giornali di ieri sembravano scritti in serie: la guerra dei dazi fa crollare Wall Street. A metterla così, tutto facile. Eppure, proprio questa (falsa e mendace) faciloneria, tradisce la malafede della narrativa in base alla quale l’economia mondiale scoppia di salute e, soprattutto, la ripresa è globale e sincronizzata. Balle, ma sono ormai mesi che lo ripetiamo, dati e grafici alla mano. Se infatti è bastata la ritorsione di Pechino contro la politica protezionista di Donald Trump a mandare fuori giri quella supposta macchina da guerra che risponde al nome di Wall Street, occorre porsi delle domande. Principalmente, una: come potevano i mercati non aver preventivato – e quindi prezzato in anticipo – una reazione tit for tat di Pechino alla mossa da guerra commerciale in piena regola di Washington? Era ovvio che la Cina non avrebbe accettato supinamente per molto le mosse della Casa Bianca e la ritorsione più semplice era proprio quella dei dazi in risposta alle tariffe aumentate su acciaio e alluminio. In seconda istanza, Pechino ha ancora in pancia qualche bel miliardone di debito pubblico Usa, ma penso che l’eventuale opzione nucleare verrà lasciata per dopo, come extrema ratio. 


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Che succede, quindi? Perché quella sorpresa in grado di far crollare gli indici, in principal modo i titoli tecnologici, già sotto pesantissima pressione per i casi Facebook e Amazon? Dopo anni spericolati, Wall Street si fa trovare con la guardia abbassata proprio in un frangente così facilmente preventivabile? No, il problema è che la grande stampa sconta due grosse criticità, al riguardo: primo, la mancanza/possibilità di approfondimento economico-finanziario, quindi si spara il titolo più semplice e immediato, la vulgata da vendere al parco buoi. Secondo, occorre che il parco buoi non si spaventi troppo, altrimenti col kaiser che continua a comprare la carta che le banche gli stanno vendendo col badile. Cosa ci sia sotto, ovvero cosa leghi la reazione di Wall Street alla Cina ai titoli tech, lo spiegherò più avanti: ora, permettetemi un breve excursus su quanto sta accadendo sottotraccia sui mercati, ovvero sotto il mitologico pelo dell’acqua dove si nascondono gli iceberg di cui la stampa autorevole fatica anche a vedere la punta emersa. 


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Quello di lunedì, cos’è stato, alla fine? Nulla più che la diretta conseguenza di anni di scelte sciagurate che ora, non una dopo l’altra ma accatastandosi in maniera sempre più disordinata, arrivano a chiedere il conto. L’altro giorno i mercati hanno agitato una serie di bandiere rosse di allarme e quei crolli, quantomeno i minimi pre-chiusura, non sono stati la reazione a una singola mossa del governo cinese, bensì un grido di allarme generalizzato: in primis, contro la Fed e per segnalare un allarme prettamente legato all’ambito monetario globale. Il tasso di crescita della massa monetaria M3 negli Usa, il quale copre un ambito molto ampio che va dai conti deposito allo stesso contante, è letteralmente crollato al minimo da sei anni a questa parte, flirtando con quella che in gergo si chiama stall speed: negli ultimi tre mesi, il tasso di crescita è sceso al 2% negli Usa, ma addirittura all’1,2% in Giappone. 


Chiusura Borsa Milano oggi, 21 Maggio 2025. Indice Ftse Mib chiude invariato (+0,07%)


Perché? Perché la vendita di bond da parte della Fed, nell’ambito del processo di rimozione del Qe dl proprio bilancio, rallenta automaticamente la crescita dei depositi bancari e frena la creazione di moneta: basti vedere il tasso di crescita dei prestiti negli Usa per rendersi conto che questa dinamica è già in atto, visto che è sceso a zero negli ultimi cinque mesi. Mentre negli ultimi tre mesi, il tasso di crescita M3 non finanziario è sceso al 2,3%, il livello più lento dalla crisi del debito europeo. Il problema è che le Banche centrali non solo hanno annunciato o dato vita al tapering dei programmi di Qe, di fatto esclusa la Bank of Japan, ma stanno anche per terminare le opzioni alternative ed emergenziali: che si fa? Si stampa! Ma come? 

E torniamo sempre al vecchio discorso: possono venderci tutte le balle che vogliono sulla ripresa, sull’inflazione che sale, su questo e su quello, ma ci si è spinti talmente oltre che l’esperimento di monetarismo faustiano che ora uscirne contempla rischi enormi, di cui i tonfi di lunedì sono solo colpetti di tosse premonitori. Hanno voluto calciare avanti la lattina per mesi e mesi, pensando che qualche genio uscisse dalla lampada regalandoci la ricetta per l’exit strategy indolore dai tassi a zero perenni e dal debito come risposta alla crisi? Ecco i risultati. 

E attenzione al Libor di cui vi parlo da qualche settimana, altro segnalatore di stress creditizio per un sistema bancario che comincia davvero a temere strane mosse della Fed e la conseguente scarsità del finanziamento in dollari: i tassi sono saliti di 62 punti base al massimo da nove anni del 2,31% da inizio anno, tanto che in un report della scorsa settimana la Fed di New York ha fatto notare – en passant – che circa 200 triliardi di dollari (avete letto bene) di derivati sono prezzati sul Libor, parliamo di qualcosa come 10 volte il Pil degli Stati Uniti. Quindi, avete capito perché continuo a picchiare sul tasto del Libor? Perché ulteriori aumenti, soprattutto se repentini perché andati psicologicamente fuori controllo, potrebbero portare in tempi rapidi a un pericolosissimo shock creditizio globale. 

Forse, cosa ne dite, i dazi cinesi sono stati solo l’accelerante da panico per un incendio doloso di ben maggiori proporzioni e con piromani di cui si conoscono nomi e cognomi? Forse, fa tutto parte della famosa strategia in base alla quale la bolla fa sì fatta esplodere, ma in base ai desiderata delle elites, ovvero attraverso mosse poco ortodosse in campo economico che trasformino Donald Trump nel perfetto capro espiatorio di quell’incendio, quando – alla fine – si sarà limitato a prestare l’accendino a chi di dovere. O, al massimo, ad accendere il fiammifero, una volta che qualcuno aveva però riempito – dal 2011 in poi – di paglia, carta e benzina quel casinò globale chiamato mercato. 

Guarda caso, parte una guerra commerciale senza apparenti motivi – il deficit Usa verso la Cina non è certo una novità degli ultimi mesi, così come la sovra-produzione del Dragone e la sua esportazione di deflazione nel mondo -, ma con un timing perfetto per coprire i ticchettii di Wall Street e le crepe sempre più evidenti sull’intonaco della narrativa di ripresa economica globale. E la strategia sta funzionando, guardate questa infografica: ci mostra come proprio lunedì, mentre Wall Street crollava formalmente come reazione alla guerra dei dazi, il grado di approvazione popolare di Donald Trump superava quello di Barack Obama a parità di giorni in carica alla Casa Bianca. L’americano medio crede davvero che il presidente stia mettendo l’America, i suoi lavoratori e l’occupazione al primo posto con le sue mosse e, quindi, sarà più propenso a incolparlo, tipico scaricabarile che è uguale in tutto il mondo, quando stampa, politici e premi Nobel lo additeranno per il disastro imminente. Come previsto, come vi dico da mesi e mesi. Almeno un anno, anzi di più. 

E in perfetto sincrono con l’arrivo del voto per le elezioni di medio termine del prossimo 6 novembre, quando per i piani di Deep State e complesso bellico-industriale, il buon Donald avrà eseguito il compito per cui è stato mandato a Pennsylvania Avenue e potrà togliere il disturbo, magari lasciando spazio transitorio al fidato Mike Pence. Ora, che la scelta di Trump oltre che strumentale ad altri fini – tra cui la distruzione della sua presidenza – sia economicamente suicida, non ci vuole un genio dell’economia per capirlo. Bastano questi due grafici relativi all’indice PMI manifatturiero Usa reso noto proprio lunedì, prima che aprisse Wall Street. 

Il primo ci mostra come il bicchiere mezzo pieno parli del livello più alto dal 2015, risultato ottenuto grazie all’aumento di nuovi ordinativi, produzione e inflazione in crescita, mentre il secondo è il proverbiale bicchiere mezzo vuoto: peccato che, in questo caso, si tratti di un vuoto strutturale. I costi della produzione sono infatti saliti al massimo addirittura dal novembre 2012, con le due sottocomponenti – rispettivamente prezzi medi e prezzi pagati – saliti al tasso maggiore da dicembre 2013 e aprile 2011. E cosa ci dice Markit per giustificare questo dato? Le aziende Usa cominciano a pagare il prezzo e subire la pressione proprio dai dazi appena annunciati dalla Casa Bianca e dall’aumento del costo delle materie prime, questo nonostante si sia ancora in regime di minimi per le commodities. Insomma, Donald Trump pensava di aver puntato una pistola alla tempia della Cina – commercialmente parlando -, ma, alla fine, rischia di spararsi in un piede. 

Al netto di questo, però, temo che la Borse siano agitate per altro, parlando di Stati Uniti: ad esempio, questo. I consumatori Usa, ovvero i motori assoluti del Pil, hanno infatti accumulato qualcosa come 1,04 triliardi di dollari di debito su carte di credito: «Quando i consumatori sono troppo fiduciosi, finiscono per mettersi nei guai con le carte di credito», ha dichiarato Todd Christensen della Debt Reduction Services a Bloomberg, ma il terzo grafico sembra dirci altro: non è la fiducia nell’economia a far scattare le carte di credito fuori dai portafogli, ma i timori legati all’aumento a breve dell’inflazione, il vecchio mantra del “compro oggi prima che aumenti il prezzo”. 

 

La spesa con carte di credito è salita del 9,4% lo scorso anno a 3,5 triliardi di dollari, stando a dati della Nilson Report, il tutto in un contesto dove l’aumento dei tassi del Libor potrebbe creare problemi non da poco per parecchie aziende, soprattutto quelle con rating di credito basso: i contratti basati sul Libor, per capirci, hanno un controvalore di circa 350 triliardi di dollari in totale, stando a dati Ice. E pensate che wall Street sia deragliata per i dazi sull’import cinese di carne di maiale, soia o vino dagli Stati Uniti? Per 3 miliardi di controvalore di merci? Siamo seri. E di serio c’è questo, ovvero l’unica reale connessione fra crollo di Wall Street guidato dal comparto tech e operatività cinese. Non sono i dazi ad aver smosso le acque, ma il combinato congiunto fra quanto vi ho detto finora e il potenziale di guerra commerciale che Pechino potrebbe veramente muovere verso Washington, se servisse davvero fare male. 

Abbiamo già parlato, anche in passato, della minaccia rappresentata dal debito pubblico Usa in mano al Dragone, un ricatto miliardario tornato recentemente in auge, visto che la scorsa settimana il Washington Post ha riportato con grande evidenza quanto pubblicato dal giornale del Partito comunista cinese, China Daily, al riguardo: per Mei Xinyu, ricercatore presso un think tank del ministero del Commercio di Pechino, «la risposta cinese (ai dazi Usa, ndr) dovrebbe seguire il principio dell’attacco calibrato e specifico. Per prima cosa, la Cina dovrebbe colpire le industrie che hanno sostenuto Trump nella vittoria del 2016 e gli Stati che ancora sostengono il presidente. Secondo, vendere Treasuries e minare il mercato azionario per fare sentire il dolore alla Casa Bianca». E il primo grafico parla chiaro: Apple, il cavallo di battaglia tech di Wall Street con un market cap di 800 miliardi di dollari, vede le sue revenues dipendere dalla Cina per qualcosa come 50 miliardi l’anno, il 20-25% del totale. Inoltre, la Apple assemblea la gran parte degli iPhone e dei suoi gadgets proprio in Cina: colpire la catena di fornitura del gigante potrebbe minare la tenuta del titolo. E con esso, l’intera Wall Street, già estremamente debole e sensibile nel comparto dopo i casi Facebook e Amazon. 

Guarda caso, tutto scoppiato insieme: il primo per le confessioni tardive di una talpa dai capelli tinti di rosa e il secondo per un attacco proditorio, diretto e senza precedenti proprio di Trump contro l’azienda di Bezos e la sua poco propensione a pagare le tasse. Come vi dico fin da quando è iniziata la tarantella attorno al social network e al gigante dell’e-commerce, qualcuno vuole far sgonfiare la bolla senza contagiare tutti gli altri indici. E, per ora, ci sta riuscendo, grazie alla collaborazione inconsapevole di Donald Trump. Il secondo grafico ci mostra come le vendite statunitensi di iPhone sul mercato interno distorcano ontologicamente lo sbilancio commerciale fra Usa e Cina, perché se l’assemblaggio pesa solo per il 3-6% del valore aggiunto, è il valore per intero degli iPhones a essere conteggiato nei numeri del commercio bilaterale fra i due Paesi. Avete voluto la globalizzazione e la conseguente pratica della delocalizzazione dell’output in Paesi con zero diritti, zero sindacalizzazione e costo del lavoro ridicolo, tutto in nome del profitto? Ora godetevi lo status di schiavitù commerciale nei confronti di Pechino, cari americani! Soltanto l’iPhone 7 ha fatto aumentare il deficit commerciale Usa con la Cina di 15,7 miliardi lo scorso anno, circa il 4,4% del totale, mentre l’import generale di telefoni e smartphone oltre che elettrodomestici e casalinghi del Dragone vede l’ammiraglia della Apple aver pesato per il 22% dei 70 miliardi totali. 

Se Pechino vuole far male, sa dove colpire. Forse anche questo, potenzialmente, fa paura a Wall Street e tocca duramente il comparto tech. Altro che dazi sul vino e la carne di maiale. 


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