Diciamo che eserciti invasori in Italia si pensa non ne arriveranno più, ma se un commando dell’Isis volesse far saltare la rete dei metanodotti Snam avrebbe a che fare con una proprietà dello Stato italiano, e lo stesso accadrebbe se aggredisse un traliccio dell’alta tensione, o un ufficio postale, o un acquedotto In Italia, come anche in Francia e in mezzo mondo, i servizi di interesse pubblico essenziale sono di proprietà pubblica o al massimo – se non lo sono gestionalmente (come la rete autostradale) – vengono affidati in concessione provvisoria ai privati. Una proprietà dello Stato verrebbe difesa militarmente in un simile ipotetico e drammatico caso-limite, quanto e non meglio di una proprietà privata, ma mentre un privato tratterebbe con i terroristi per difendere anche così i suoi interessi, lo Stato no, e sarebbe un bene.
Quest’ipotesi puramente retorica ha però attinenza con il dibattito incandescente sulla proprietà della rete Tim. Oggi privata, privatissima, e gestita da mani straniere, di dubbia affidabilità.
Tim, figlia di Telecom e nipote della Sip, ha la piena proprietà della capillarissima e sterminata rete di cavidotti, sia longitudinali che trasversali, a banda (capacità di trasmissione dati) media, larga e larghissima, che innerva l’Italia e che è stata costruita in quarant’anni con i soldi dei contribuenti quando la telefonia era solo di Stato. È roba sua, dunque: di Tim, e quindi di chiunque sia padrone di Tim. Oggi, dunque, di monsieur Vincent Bollorè, affarista bretone, gestore di 30 porti nell’Africa Nera e di una pay-tv francese di incerta fortuna, Canal Plus controllata da Vivendi, che nel suo approccio a Telecom si è rivelato, nei modi e nella sostanza, di una disinvoltura degna della massima diffidenza, sulle cui concrete manifestazioni peraltro indaga la magistratura.
Poi, certo, l’esercizio dei servizi di telecomunicazioni è regolato per legge e presidiato da un’Authority: ma comunque con la dissennata privatizzazione del ‘97 (con cui lo Stato incassò appena 27 mila miliardi, quando due anni dopo Colaninno lanciò un’Opa da centomila!) quella rete è diventata privata a tutti gli effetti. E oggi è controllata da Bollorè. Ebbene: è sbagliato e pericoloso che un bene di tale strategicità appartenga a dei privati per di più speculativi e comprovabilmente strafottentissimi non tanto degli interessi del Paese, ma anche della buona educazione come questi di Vivendi. Un’opinione, certamente, ma sostenibilissima.
Proviamo a capirci. Nell’era dei dati, nell’era della connessione permanente, alla vigilia della campagna di diffusione dello standard delle telecomunicazioni mobili 5G, che ha bisogno della rete fissa a banda ultralarga per collegare l’una all’altra le antenne, se è strategica la proprietà dei gasdotti, se è strategica la proprietà degli elettrodotti, degli acquedotti e delle poste, sarà ben strategica anche quella dei cavi, o no?
Sui cavi passano le informazioni più sensibili di tutti noi, dall’anagrafe ai conti correnti alle telefonate, ai post sui social. In qualunque snodo della rete un bravo hacker installa le sue spie elettroniche e succhia via i dati che gli interessano. Non a caso la collaborazione tra i tecnici delle aziende telefoniche e i servizi segreti è sempre stretta e obbligata. Vogliamo lasciare a stranieri inaffidabili tanto potere?
Di nazionalizzare la rete telefonica si parla praticamente dall’indomani dell’Opa Telecom in poi, cioè dal Duemila. Ne discusse l’allora ministro Salvatore Cardinale, ci ha provato Prodi nel 2007- e Tronchetti fu costretto a mollare la proprietà Telecom per aver detto di no, essendo stato ad oggi l’unico azionista Telecom ad aver trovato una strategia che se seguita sarebbe stata utile. C’è stato l’interminabile e inutile “tavolo Romani”. Oggi, con il boom dei dati e dei rischi connessi al loro cattivo uso, questa separazione della proprietà s’impone senz’altro indugio.
Oltretutto, Cassa depositi e prestiti ed Enel – dunque lo Stato – dando vita a Open Fiber hanno creato un bellissimo progetto industriale di cablaggio dell’Italia a banda larga che potrebbe avvalersi di intelligenti ed efficienti sinergie con la rete fissa Tim, se Tim le accettasse: ma ha detto “niet”.
Ora: tra le altre sue arroganze, Bollorè ha quella di voler controllare Tim col 23% circa. All’ultima assemblea dei soci sulle nomine rischiò di perdere contro il fronte dei fondi che, coalizzato nelle critiche alla sua governance, espresse appena lo 0,5% di voti in meno. Stavolta perde sicuro se come sembra il fondo americano attivista Elliott riesce a coalizzare attorno a sé consensi adeguati. Sarà un bene? Ha senso opporre a una proprietà straniera un’altra proprietà straniera?
È certo un male minore. Ma, di gran lunga, mancando investitori italiani per evaporazione del capitalismo di casa. Perché Elliott di mestiere vuol far crescere il valore delle azioni delle sue partecipazioni (che nel caso di Tim sono invece calate molto per la pessima gestione dettata dai francesi) e vuole dividendi; non pretende di usare le sue partecipazioni per farsi i fatti suoi su altri fronti. E poi perché Elliott ha messo insieme una lista di consiglieri, da proporre all’assemblea del 24 aprile per cambiare il vertice Telecom, di primissimo ordine. In prima battuta: Fulvio Conti, Massimo Ferrari, Paola Giannotti De Ponti, Luigi Gubitosi, Dante Roscini e Rocco Sabelli – nomi credibili e qualificati – cui sono stati aggiunti Marina Brogi, Alfredo Altavilla, Paola Bonomo, Lucia Morselli. Tre donne – due manager e un’economista – di alto profilo e grande competenza e il manager che ha resistito meglio, in Fiat, ai tritacarne Marchionne. Il massimo che si potrebbe desiderare, attorno a un progetto da “public company” presidiato dalla Cassa depositi e prestiti, come ha specificato ieri Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo, che dovrà essere Tim.
Dunque, riepilogando: se vince Elliott, l’azienda Tim finisce in mani gestionali di molte lunghezze più prestigiose e affidabili delle attuali. La proprietà dell’azienda cambia, ma non diventa statale – con buona pace dei pianti greci dei liberisti duri e puri che hanno validamente concorso a rovinare il nostro Paese: conserva un assetto da public company, guidato dai fondi e presidiato dalla Cassa. Quel che diventa di proprietà pubblica o, almeno, mista (pubblico-privata) è la rete dei cavi. E sarebbe ora.