M5S lancia il ballon d’essai di una nuova commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche italiane, ma dimentica di aver deciso e partecipato all’ultima già in posizione non marginale (5 commissari su 40). Che bisogno c’è di riaprire i battenti meno di un anno dopo? I “gialli” soprattutto, scordano che dallo scorso gennaio – quando la commissione Casini chiuse i lavori praticamente assieme alla legislatura – il loro partito è emerso dal voto come quello di maggioranza relativa e che dall’inizio di giugno regge il governo del Paese in coalizione con la Lega. Da loro – anzitutto da loro – si attendono ora soluzioni di politica creditizia per il presente e per il futuro, non nuovi processi politici al sistema bancario del passato.
Nell’ultima intervista al Sole 24 Ore, il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha confermato che Mps verrà riprivatizzato, sembrando chiudere la porta a un’ipotesi abbozzata dal “contratto di governo” M5S-Lega (il Monte portato nella sfera della Cdp a rafforzare un nuovo polo bancario pubblico). Certamente Tria ha nel suo raggio d’azione più immediato Carige e – in misura diversa – il Credito Valtellinese. A tre anni dalla liquidazione coatta di Banca Etruria & C, a un anno dalla completa sparizione di Popolare di Vicenza e Veneto Banca, Carige è ancora in agonia patrimoniale e gestionale. Sulle sue quasi-spoglie si accapigliano i vecchi azionisti e volteggiano alcuni raider, mentre i consiglieri fuggono e il Ceo Paolo Fiorentino si accinge a giocare le ultime carte (la vendita della quote Bankitalia e altre partecipazioni autostradali). Colpisce il quasi-silenzio delle authority, ma anche i vertici della vigilanza Bce sono in scadenza e Bankitalia è paralizzata da tempo in un limbo di deresponsabilizzazione istituzionale e di delegittimazione politica.
Il Valtellinese – che ieri ha presentato conti semestrali in pareggio – ha più che tamponato le falle patrimoniali scavate dai lunghi anni della crisi. Ma l’aumemto di capitale primaverile ha portato l’ormai ex Popolare a essere una Spa interamente controllata da investitori istituzionali, per gran parte non italiani. Non ha sorpreso che il finanziere francese Denis Dumot – che aveva rastrellato il 5,8% del Creval già prima del salvataggio – abbia fatto la prima mossa, chiedendo il rinnovo del consiglio d’amministrazione, tuttora presieduto da Miro Fiordi. Ma la partita per il controllo del Valtellinese – ormai una public company – comincia ora: mentre un altro soggetto francese – il Crédit Agricole – è emerso nell’azionariato con una quota del 5%. La Banque Verte è già solidamente presente in Italia con Cariparma (che ha rilevato alcune piccole casse fallite), ma difficilmente si potrebbe parlare di “soluzione italiana” in caso di intervento sul Creval: che ha una rete forte in Lombardia, anche se ramificata lungo tutto la penisola.
È comunque di fronte a questi dossier scottanti che il governo giallo-verde – programmaticamente neo-statalista e “sovranista” – si scopre senza strategia salvo il contorto tentativo di rinvio della riforma delle Bcc e senza interlocutori e punti d’appoggio nel settore bancario.