La Russia non ha tenuto il denaro monetizzato con la vendita dei titoli di stato Usa sotto il materasso. Ma ha comprato – come fa da 39 mesi consecutivi – altro oro fisico, come mostrano i due grafici più in basso, dai quali si vede che nel mese di maggio, quello della grande svendita di debito Usa, Mosca ha aumentato le sue riserve auree di un altro 1%, portando il totale a 62 milioni di once o 80,5 miliardi di dollari di controvalore, stando a dati della scorsa settimana della Banca centrale russa.
Ora, in sé la questione potrebbe riguardare solo l’opportunità reale di accumulare oro in un mondo che ormai guarda alle criptovalute, ma la realtà è un po’ differente. Mosca, ovviamente, sta sfruttando i prezzi relativamente bassi (1.232 dollari l’oncia, il fixing di venerdì) per accumulare metallo, il quale viene visto negli Usa come una garanzia che Mosca vuole porre a tutela – se non addirittura pensando a uno status gold-backed – del rublo in vista dei tremori sui mercati sempre più probabili in autunno, stante anche la necessità di Putin di investire nelle promesse elettorali fatte al popolo in campo di welfare e non solo in armamenti.
Ma ecco che l’ultimo grafico complica e amplia non poco il quadro: se infatti la gran parte degli speculatori ha cominciato prima a ridurre e poi a chiudere le posizioni rialziste sull’oro a partire dal gennaio 2016, venerdì scorso hedge funds e altre grandi istituzioni finanziarie hanno portato al massimo dal 2006 le scommesse ribassiste sul metallo prezioso, di fatto scommettendo in massa su un calo (e non da poco) delle sue valutazioni. Chi si sbaglia? La Russia a puntare tutto, con una strategia apparentemente molto anni Ottanta, sul bene rifugio per antonomasia, quello che tesaurizza le aspettative di crisi o Wall Street che si dice certa di un ulteriore calo del prezzo, sintomo che non ci sarà una corsa ai cosiddetti safe havens?
Perché se la seconda ipotesi risulterà quella vincente, paradossalmente potrebbe essere una buona notizia, poiché un tonfo dell’oro potrebbe coincidere con uno o più eventi in grado di attenuare le tensioni geopolitiche ed economiche in atto: fine della guerra commerciale e accordo con la Cina? Disgelo definitivo con Mosca? Disarmo unilaterale della Corea del Nord? O magari la più classica delle scommesse contrarian, ovvero l’applicazione della regola che ha imperversato negli ultimi anni sul mercato grazie all’interventismo onnivoro della Banche centrali? Ovvero, bad news is good news.
Se infatti al netto della narrativa, prevalesse il realismo di un mercato che in autunno farà davvero le bizze – scatenato magari proprio dal detonatore di una crisi geopolitica o dal tonfo dei titoli tecnologici a Wall Street o dal comparto obbligazionario ad alto rendimento, il vero canarino nella miniera -, la Fed potrebbe quantomeno stoppare il suo programma di normalizzazione dei tassi. Se non invertire del tutto la marcia, come di fatto chiesto – rompendo un tabù degno del vaso di Pandora per la politica Usa – proprio da Donald Trump dieci giorni fa con il suo tweet contro la Federal Reserve e la sua scelta di alzare i tassi, a fronte di Cina e Ue che “manipolano” le rispettive valute.
Insomma, sarà un temperato e limitato ritorno a una politica espansiva della Fed a calmare gli animi e far scendere il prezzo del “metallo della paura”? In quel caso, le valutazioni dell’oro russo caleranno. E magari quella perdita andrà contabilizzata dentro un budget già da tirare come un lenzuolo troppo corto per Zar Vladimir. Certamente, una prospettiva che non farebbe dispiacere a Washington. In compenso, se invece il prezzo schizzerà in alto per qualche capitolo dell’agenda geopolitica che andrà fuori programma, chiudere in fretta e furia quelle posizioni, coprendo shorts miliardari, potrebbe fare male a Wall Street, innescando un vero e proprio domani nell’anno del decimo anniversario del crollo di Lehman Brothers. E, magari, garantire una scusa in più alla Fed per tornare in campo, perché l’impatto psicologico sull’opinione pubblica sarebbe potenzialmente devastante. Oltretutto, con la scusa della Russia cattiva che ha “manipolato” il prezzo dell’oro.
Anche perché, il caso vuole che il dato sul Pil statunitense del terzo trimestre verrà pubblicato proprio alla vigilia del voto di mid-term del 6 novembre. E allora, un capro espiatorio che copra il fallimento della politica di dazi e protezionismo dopo gli smoke and mirrors del 4,1% di venerdì scorso, potrebbe davvero fare comodo.
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