“Or incomincian le dolenti note/ a farmisi sentire; or son venuto/ là dove molto pianto mi percuote“: Padre Dante si rivolterà indignato nella sua tomba di Ravenna, a veder violentata la sua terzina dal quinto canto dell’Inferno per parlare di Salvini e Di Maio, ma la violenza è lecita perché scandisce come, sulla faccenduola delle pensioni d’oro da tagliare, si stia profilando il primo, vero intoppo nell’alleanza altrimenti efficiente tra la Lega e i 5 Stelle.
Niente che minacci, per ora e da solo, il cammino della strana coppia, ma un primo vero intoppo sì, dopo i tanti intoppi “fake” indicati invano dal coro plebiscitario dei detrattori-a-prescindere che sparano quotidianamente contro il governo dalle colonne di quasi tutti i grandi giornali italiani, sempre più gravitanti nell’orbita dei poteri tradizionali contro i nuovi entranti, votati dalla gente: la stessa che non a caso non compra più quei giornali.
Perché sulla quisquilia delle pensioni d’oro Lega e 5 Stelle avranno un bel problema a rabberciare un compromesso decente? Perché in sé la vicenda vale appena 500 milioni, una goccia nel mare dei 5 miliardi all’anno (a dir poco) che costerebbe riformare la Fornero nella direzione pluriannunciata, concordemente, da Salvini e Di Maio; ma entrambi i partner della coalizione Brancaleone tengono molto alla faccenda per opposte ragioni elettoralistiche.
Per i 5 Stelle la vendetta sociale contro i pensionati d’oro è parte integrante di uno storytelling “robinhoodiano” che prescrive loro di togliere ai ricchi per dare ai poveri, architrave di anni di campagna elettorale castigamatti, quella dei cori “onestà, onestà” eccetera; mentre per la Lega quest’obolo in sé modesto va malauguratamente a colpire soprattutto pensionati del Nord, probabilmente in gran parte elettori leghisti.
Eppure, sarebbe sbagliato parlare di qualcosa in più di un intoppo, perché magari elevando da 4mila a 5mila euro netti al mese il “tetto” da considerare “d’oro” si potrà ritrovare l’armonia. C’è ben altro intoppo, in prospettiva, sulla strada dell’alleanza.
Nel merito delle pensioni d’oro, Alberto Brambilla – l’economista vicino alla Lega che ha definito inattuabile l’intervento – è un signore stimatissimo per le sue competenze specifiche, quindi si può presumere che abbia ragione da vendere. E più in generale, in un mondo nel quale perfino Vladimir Putin, un leader così caro proprio ai leghisti, sta per riformare le pensioni russe in chiave restrittiva, pensare che l’enorme spesa pensionistica italiana possa essere ri-aumentata dopo la purga Fornero è molto ingenuo, se non decisamente truffaldino.
Nei decenni della prima (soprattutto) e in parte anche della seconda Repubblica, proprio sulle pensioni, i governi sostenuti dai partiti che oggi s’indignano contro i gialloverdi hanno fatto carne di porco del denaro pubblico per gratificare a ondate vaste fasce di popolazione pensionata… creando una costruzione insostenibile.
Dal ’95 – riforma Dini – in poi, la politica ha suo malgrado intrapreso un lungo cammino a ritroso, ancora scandito da false promesse utilizzate come fumo negli occhi per impedire sollevazioni popolari.
La sostanza è che il caro vecchio metodo retributivo è morto. Quel metodo, in virtù del quale – dal Dopoguerra in poi – si era sempre andati in pensione con assegni mensili parametrati agli ultimi cinque anni di stipendio, di regola i più ricchi, e non al monte dei contributi versati nel corso dell’intera vita lavorativa (metodo contributivo), si reggeva su due assunti tragicamente provvisori, che nessuno osava però definire come tali: che cioè la massa dei contribuenti pensionistici continuasse a crescere più della massa dei pensionati percipienti assegno; e che la crescita economica procedesse spedita come negli anni Ottanta e, parzialmente, Novanta, consentendo così una simmetrica crescita del Pil e dei redditi, capace di coprire i regali pensionistici di quel vecchio metodo.
Invece, la curva demografica calante, le crisi economiche successive, il rallentamento del Pil e l’allungamento dell’attesa di vita hanno fatto saltare il banco. Dal ’95 in poi, chi non aveva già maturato in quell’anno almeno 18 anni di contributi è andato e andrà in pensione con un calcolo misto, parzialmente retributivo e parzialmente contributivo. Chi ha iniziato a lavorare dopo il ’95, vi andrà con un assegno proporzionato ai contributi versati, peraltro retrocessi con aliquote molto avare, perché tengono conto dei tanti anni a venire in cui quegli assegni andranno pagati ai pensionati finché non passeranno a miglior vita.
La riforma Fornero, pur brutale, si è limitata a prendere atto che le norme susseguitesi fino ad essa, in particolare i ritocchi alla riforma del ’97 e del 2003, non bastavano ed ha introdotto l’odiata e definitiva parametrazione degli assegni alla crescita dell’attesa di vita.
In questa temperie, fa indubbiamente specie che una pattuglia di poche decine di migliaia di pensionati già a riposo percepiscano, in virtù delle vecchie norme, le famigerate pensioni d’oro, e il taglio dei benefici di questa categoria di pensionati è una vittima sacrificale che la “nuova politica” deve immolare sull’altare della rabbia di chi si è sentito fregato. Chiamiamolo pure populismo, oppure chiamiamolo Pasqualino o come vogliamo: ma è una necessità politica evidente. La Lega la respinge perché finanziariamente irrilevante – su questo Brambilla ha ragione – e perché impugnabile con mille argomenti giuridici, tutti gravitanti attorno al concetto dei “diritti acquisiti” inviolabili. Ma d’altronde non erano forse acquisiti i diritti d’attesa dei lavoratori che – per esempio! – nel ’95 avevano solo 17 anni e undici mesi e si sono visti scippare la pingue e confortevole pensione retributiva dai 56 o 57 anni in poi sulla quale avevano contato fino ad allora? Erano diritti acquisiti eccome, eppure sono stati calpestati, per l’inesorabile effetto della legge del denaro: quando non ce n’è, non ce n’è.
E dunque? Dunque, il taglio “s’ha da fare”: e per farlo, dovendo contemperare anche le esigenze politiche leghiste, si arriverà a un compromesso.
I veri intoppi verranno poi. Con l’approssimarsi della scadenza cruciale delle legge di Bilancio, tutte le maxi-promesse fatte dai gialloverdi in campagna elettorale rischiano di passare sotto queste forche caudine del realismo finanziario uscendone tosate come pecore a tutta beffa degli elettori boccaloni che le avevano prese per buone.
Intendiamoci: le promesse dei gialloverdi – in particolare la riforma della Fornero, il reddito di cittadinanza e la flat-tax – hanno una loro interna legittimità. Ma non hanno copertura finanziaria possibile. Nemmeno basterebbe lo sforamento del 3% del rapporto deficit-Pil, che già di per sé rischierebbe di far saltare lo spread tra Btp e Bund, scaricando sulla finanza pubblica una ventina di miliardi di euro all’anno in più come costo del “servizio al debito”, cioè degli interessi da offrire agli investitori sui Btp per convincerli a comprarseli. Ogni punto di Pil vale 15 miliardi di euro: passare dal 2% di rapporto deficit/Pil – che, al massimo, si pensava potesse essere il limite propinabile all’Europa – a quota 4%, significherebbe mettere in gioco una quarantina di miliardi in più rispetto quanto preventivato nell’ultimo documento programmatico del governo Gentiloni. Sembrano tanta roba, 40 miliardi, ma bastano a stento a fare una spolveratina di reddito di cittadinanza, un’assaggino di flat tax e un sorsetto di riforma Fornero. Poi Salvini e Di Maio saranno bravi a presentare queste – di per sé comunque ardue – concessioni come un antipasto delle magnifiche successive elargizioni. Ma quanti dei loro elettori sapranno pazientare e gli crederanno ancora?
Quando Renzi strepitava di aver riempito le tasche di 10 milioni di italiani con gli 80 euro e di aver creato 1 milione di posti col Jobs act, negando l’evidenza di un Paese che continuava a non consumare e a non produrre veri e stabili posti di lavoro, giustamente Lega e grillini sparavano a palle incatenate, e Renzi perdeva consenso a bocca di barile per l’evidente tradimento delle sue promesse e per la palese infondatezza delle sue vanaglorie. Ma l’ha pagata tutta, eccome se l’ha pagata. Questo, Salvini e Di Maio, farebbero bene a tenerlo presente.