Preparatevi, perché agosto sarà il mese dei prodromi. Della preparazione. Dei messaggi silenziosi. Agosto, con i suoi “chiuso per ferie” che riguardano anche i palazzi del potere, ci dirà come sarà settembre. E ottobre. E novembre. Senza che ce ne accorgiamo, tutto comincia a scivolare lungo un piano inclinato. Qualcuno, si è già messo in salvo. Qualcuno, dall’alto della sua torre d’avorio, può permettersi già da ora il lusso di godersi la replica del 2008, potenzialmente al cubo, quasi stesse rivedendo Margin call su Netflix in un’afosa sera d’estate. Qualcuno, anche su queste pagine, da qualche settimana, si è messo in modalità allarmistica. Ha scoperto la crisi, dopo che per trimestri ha cantato la ripresa e i suoi miracoli: gli stessi che della crisi in arrivo sono stati i semi, germogliati grazie alla pioggia di denaro a costo zero delle Banche centrali. Va bene così, meglio tardi che mai. Il problema di chi arriva in ritardo è che generalmente si è perso (o, più facilmente, non ha capito) un pezzo fondamentale di narrativa, quindi a prognosi azzeccata, sbaglia la cura. O i tempi in cui somministrarla.
Preparatevi, perché al mantra dei dazi e della guerra commerciale come causa di ogni male, con il gradito coté di criminalizzazione politica in tal senso dell’inquilino della Casa Bianca, tra poco si unirà quello della crisi dei titoli tecnologici, perché i grandi analisti e raffinati commentatori finanziari ed economici hanno scoperto con qualche trimestre di ritardo il peso folle che i titoli azionari di quel comparto hanno sul già totalmente manipolato (dalla Fed che consente buybacks come se non ci fosse un domani e, di conseguenza, valutazioni fuori dal mondo) mercato azionario Usa.
È cronaca di questi giorni: dopo i tonfi di Facebook e Twitter, dovuti ai deludenti dati dei conti, giovedì Apple ha superato quota 1 triliardo di dollari di valore, la prima azienda Usa a varcare quel limite assurdo: da sola, vale le prime 10 aziende francesi, nomi come Bnp Paribas, L’Oreal, Airbus, Lvmh e Total. Ma fabbrica telefonini. Belli quanto volete ma sempre e solo telefonini: quanto varrebbe, in prospettiva, il titolo di un’azienda farmaceutica che avesse scoperto il farmaco in grado di rendere curabile anche solo nel 20% dei casi una forma di tumore particolarmente grave e mortale?
Tenete a mente questo paragone, perché non è fatto a caso. Ciò che i nostri sapientoni dell’ultim’ora hanno scoperto, in realtà, è semplice matematica, peccato che se si guarda al mercato solo quando conviene (ovvero, quando fa notizia e garantisce visibilità), certi sviluppi non li si coglie. Come i ritardatari alle riunioni. E si rischia di sparare castronerie. Il settore tech pesa per 26,2% dello Standard&Poor’s 500 e i cinque nomi che lo compongono (Apple, Microsoft, Google/Alphabet, Amazon e Facebook) rappresentano congiuntamente il 15,5% del totale e rispettivamente il 4%, 3,5%, 3,2%, 3% e 1,8%. Ancora, questi cinque nomi pesano per il 7,9% dell’indice Msci World, più dell’allocazione totale di tutte le equities giapponesi. E anche in questo caso, tenete a mente quest’ultimo paragone: non è buttato lì per comodità.
Ora, il grande timore della stampa e dei grandi analisti, è il seguente: se solo quel settore dovesse perdere il 10%, cosa accadrebbe di Wall Street? Contagio diretto e sell-off globale sugli indici? No. E non solo perché il 90% degli indici azionari dei mercati emergenti, Cina in testa, siano in correzione ormai da settimane, senza che il mondo sia crollato, ma per altro. Molto poco tecnico e molto politico, in tempi di Banche centrali che guidano le danze e scelgono la musica. Basterebbe un off-setting pari (1:1) da parte di due di questi altri settori, per evitare un effetto bomba: comparto sanitario (14,3% sul totale dell’S&P’s 500), finanziario 14%, consumer discretionary (12,6%), industriale (9,7%). In aggregato, siamo al 50,6% dell’indice. Inoltre, il resto dei settori che compongono l’S&P’s 500 (energetico, materiali, real estate, telecomunicazioni, utilities) pesa in aggregato solo per il 23,2% e, visti i loro fondamentali, appare difficile che possano operare in maniera talmente uniforme da poter operare un off-setting su un 10% di correzione dei tecnologici. Insomma, come nel voto Usa, sono metaforicamente Stati che non contano o contano poco: sono il Rhode Island o la Hawaii, non certo California o Florida.
Perché prima parlavo della questione sanità e del potenziale valore che potrebbe avere un farmaco rivoluzionario? Perché al netto del mezzo disastro compiuto da Trump con la riforma dell’Obamacare, il quale come ricorderete ha salvato per interi trimestri il Pil statunitense sotto Obama grazie alle sue spese fisse (in continuo e insostenibile aumento per il potere d’acquisto reale dei cittadini di classe media) ci vorrà poco perché, debitamente stimolato da banche d’affari e media, il mercato si convinca che la Casa Bianca potrebbe compiere qualche passo indietro e operare sul settore, di fatto tramutandolo nella nuova, potenziale gallina dalle uova d’oro. Oltretutto, con la Fed che opera – ancorché in incognito, almeno per la vulgata comune – come backstop occulto di ogni potenziale rischio, visto che la guerra commerciale serve unicamente a due scopi: operare offsetting sul deprezzamento dello yuan attraverso l’imposizione di dazi e tariffe e garantire alla Federal Reserve la scusa mediaticamente e politicamente spendibile per mettere in stand-by la sciagura della normalizzazione del costo del denaro (Greenspan docet).
In tal senso, infatti, vi pare un caso che proprio ieri, dopo che lo yuan ha toccato le otto settimane consecutive di svalutazione nel cambio, striscia più lunga da quando è iniziato il moderno regime di cambio valutario cinese (1994), le autorità cinesi abbia alzato i requisiti di riserva per operare sui futures valutari dallo 0% al 20%, di fatto stroncando gli short che facevano deprezzare la valuta? Di fatto, una contrazione delle condizioni valutarie interne e una facilitazione delle condizioni finanziarie per gli Usa (leggi Wall Street): cos’è, di colpo Pechino si è tramutata dell’Esercito della salvezza o nelle Dame di San Vincenzo? Oppure, come vi dico da sempre, sono due ubriachi che si reggono l’un l’altro per cercare di arrivare a casa sani e salvi?
E tornando all’ipotesi sul comparto pharma, non serve un analista equity dal grande nome per vedere, già oggi, che il settore sanitario si presenta “a sconto” come opportunità di acquisto, visto che a livelli di aspettativa degli utili a 12 mesi viaggia a 15.8x contro i 19.9 del settore tech. E ora, torniamo un attimo al secondo paragone che vi avevo detto di tenere in mente, ovvero quello fra peso dei cinque campione tecnologici Usa ed equities giapponesi nell’Msci World. Perché l’ho utilizzato? Perché, come ci mostra il grafico, mentre gli allarmisti dell’ultim’ora gridavano al pericolo legato a Facebook e idiozie iper-valutate ontologicamente come queste, il mercato azionario giapponese superava quello cinese, diventando il secondo al mondo, dopo il sorpasso inverso che si registrò sul finire del 2014, quando Pechino mise la freccia e da lì a pochi mesi toccò il valore record assoluto di 10 triliardi di dollari.
Dopo il tonfo di giovedì, il valore delle equities cinesi è infatti sceso a 6,09 triliardi di dollari, stando a dati di Bloomberg, contro i 6,17 triliardi di quelle nipponiche: nemmeno a dirlo, saldamente in testa resta il gran casinò globale conosciuto come Wall Street con i suoi 31 triliardi di dollari. Ma è il Giappone a contare, silenziosamente.
È il Giappone il canarino nella miniera da tenere d’occhio, a livello globale e di paradigma, in questo agosto di tensioni che ci accompagnerà verso il decimo anniversario del fallimento di Lehman Brothers. Ma di questo parleremo lunedì.
(1- continua)