Le dinamiche politiche e sociali stanno rafforzando nella sensibilità popolare l’idea che lo Stato debba riprendere un ruolo da protagonista, un ruolo di garanzia per i redditi dei cittadini, di tutela generalizzata dei diritti, di intervento a ogni livello del sistema economico. Lo si può chiamare populismo, sovranismo, nazionalismo o qualunque altra definizione, ma il dato di fondo è che si allarga la sfiducia verso la scelta delle persone, si restringono gli spazi di libertà (anche perché cresce il carico fiscale palese od occulto per finanziare le maggiori spese), si innesca una spirale pericolosa con la riduzione di fatto delle iniziative dei privati e il sempre maggiore allargamento della sfera pubblica.
È una tendenza tuttavia che nasce anche da una concezione sostanzialmente manichea della società dove la dimensione economica e sociale si riduce tendenzialmente solo all’alternativa tra Stato e mercato. È una prospettiva tuttavia che non solo deriva da una limitata visione politica, ma che rischia progressivamente di emarginare lo stesso valore della storia e della tradizione italiana, una storia e una tradizione che vede nelle comunità intermedie un fattore essenziale non solo della crescita, ma anche di quel fattore molto importante che è la coesione sociale.
Ne sono un esempio le fondazioni di origine bancaria, nate all’inizio degli anni ’90 per volontà dei lungimiranti governanti di allora, in particolare Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, che si posero l’obiettivo di liberare dai vincoli il sistema delle Casse di risparmio per poter affrontare la sfida europea, ma nello stesso tempo di salvaguardare il patrimonio finanziario e ideale costituito nel corso degli anni e da sempre destinato a opere di solidarietà sociale.
Per le banche è iniziata una stagione di integrazioni e fusioni che hanno portato alla creazione di due grandi gruppi come Intesa Sanpaolo e Unicredit. Le fondazioni si sono progressivamente svincolate dalla gestione diretta degli istituti di credito, tranne qualche eccezione, hanno diversificato i loro investimenti e hanno sviluppato il loro impegno nel welfare e nel sostegno a molte attività del terzo settore e del non profit. Queste realtà si inseriscono in una dimensione economica in cui si possono tradurre in realtà gli ideali di fondo proposti dall’enciclica di Benedetto XVI, Caritas in veritate, in particolare quel richiamo alla gratuita come dimensione essenziale all’interno di un sistema economico che ha al centro la persona in tutte le sue relazioni.
Un’ampia analisi della realtà delle comunità intermedie è racchiusa nel libro di Giovanni Quaglia e Michele Rosboch che ha un titolo molto significativo: La forza della società (ed. Aragno, pagg. 146, € 15). Un libro in cui si passano in rassegna i fondamenti storici, l’evoluzione del pensiero, le realizzazioni concrete che hanno accompagnato le comunità intermedie nella realtà italiana. Con una linea guida fondamentale, quella di una partecipazione che diventa organizzazione, punto di riferimento istituzionale capace di rispondere alle esigenze sociali. Le comunità intermedie diventano così “articolazioni della persona ed elementi organici della società civile”, nella prospettiva più concreta della sussidiarietà. E il libro si conclude sottolineando come “un pensiero politico originato dalla difesa della persona e dal pluralismo sociale è il miglior argine alla visione tecnocratica, elitaria ed efficientistica dell’attuale società utilitaristica”.