La secca dove si è arenata la “barca Carige” è stata quella della concessione di prestiti facili poi non restituiti. Oggi la banca deve fare una grande pulizia di sofferenze eliminandone almeno altre per 850 milioni netti e quindi cercare 200 milioni di capitale fresco da sommarsi al prestito da 320 milioni concesso a suo tempo da altre banche che andrà, per forza, rinegoziato visto che il tasso debitore è schizzato a un improbabile 16%, gravando così i costi di ulteriori 52 milioni di interessi lordi all’anno. Ci potrebbe essere l’idea auspicata da molti della nazionalizzazione, ma questa azione brucerebbe quasi due terzi dei capitali privati.
A questo punto, facendo un calcolo economico di tutti i pacchetti di crediti deteriorati ceduti nell’ultimo trimestre del 2018 (366 milioni lordi di “unlikely to pay” – incagli e crediti ristrutturati), il Texas ratio di Carige è stimato al 101,6%, valore di poco al di sopra del livello definito “di guardia”. Non bisogna poi dimenticarsi che dal 2015 a settembre 2018 Carige ha accumulato perdite per 996,6 milioni di euro, peraltro i depositi dovrebbero pareggiare gli impieghi per mantenere la banca in equilibrio e tenere sotto controllo il rischio reale che non ci sia abbastanza liquidità per soddisfare improvvise richieste di restituzione del capitale. A tal proposito, il “loan to deposit ratio”, ovvero il rapporto tra crediti verso clienti e i depositi, a fine settembre risultava essere più del 123% e questo ancor prima che saltasse il fondamentale aumento di capitale.
Oggi il salvataggio di Carige è, in ordine di tempo, l’ultimo di una serie di dissesti bancari che ha colpito il nostro Paese, anche se il “monte crediti” in sofferenza non si è ancora esaurito. Anche a causa delle precedenti gestioni quanto meno “disinvolte” Carige è stata commissariata dalla Bce il 2 gennaio. Il decreto del Governo che ha assicurato a Carige una garanzia pubblica di 3 miliardi sulle nuove obbligazioni e 1,3 miliardi per un’eventuale ricapitalizzazione è del tutto simile a quello che nel dicembre 2016 venne approvato per salvare Monte Paschi di Siena con 5 miliardi di soldi pubblici, oppure impegnando 4,8 miliardi per l’acquisizione, a condizioni molto ma molto vantaggiose, da parte di Intesa Sanpaolo delle Banche Venete.
È quanto meno scioccante vedere che il gruppo bancario ligure nel 2007 valeva 6 miliardi di euro e oggi, prima della sospensione in borsa, il suo valore si è disintegrato fissandosi a 80 milioni di euro! Il tema preminente per Carige in questa sua fase storica così complicata non può essere rapportato semplicemente al capitale, ma deve fondarsi sul suo grado di liquidità, valore creato dal fondamentale rapporto con i clienti. Solo così potrebbero avere successo le nuove emissioni di bond peraltro anche garantite dallo Stato. A ciò si affianca l’altra faccia della crisi della banca, dove le sofferenze vedono la vendita dei crediti difficili che la Bce ha indicato come obbiettivo primario entro e non oltre il 2026.
In questo contesto un ruolo determinante sarà ricoperto dalla Sga (società per la gestione degli attivi) creata nel 1997 per gestire il salvataggio del Banco di Napoli, a oggi divenuta una società controllata al 100% dal Tesoro. Tutto però dovrà passare sotto gli occhi dell’Ue, dove il piano tecnico di ristrutturazione si sovrappone al piano politico in cui lo scontro politico tra Roma e Bruxelles è sempre molto difficile.