Nella seconda metà del Settecento il giurista milanese Cesare Beccaria pubblicò un libro destinato a diventare uno dei capisaldi della civiltà giuridica: Dei delitti e delle pene. Un libro che è ricordato per la dura critica alla pena di morte, allora praticamente diffusa in tutti i paesi, perché lo Stato per punire un delitto ne compirebbe un altro di uguale portata e perché il fine della pena deve comunque rispettare la dignità della persona e costituire un deterrente per l’intera società. E la pena di morte può essere temuta meno dell’ergastolo e non svolge quindi un’adeguata funzione di freno alla criminalità di ogni tipo. Anche perché una distorta visione religiosa garantiva al condannato a morte tutto il tempo necessario per chiedere e ottenere il perdono e quindi la certezza dell’eterna felicità.
La visione del Beccaria si distingueva poi in modo particolare perché nella società del tempo la pena era il più delle volte sinonimo di vendetta ed era il modo con cui il principe incuteva terrore e cercava di rendere sottomessi i propri sudditi. L’opera Dei delitti e delle pene non ha avuto solo il merito di aprire un nuovo capitolo della visione del sistema della giustizia, ma anche quello di provocare un’analisi che forse ha avuto meno successo nella storia, ma che costituisce comunque un complemento importante nella dimensione economica e sociale.
L’analisi è quella dell’economista napoletano Giacinto Dragonetti che ha per titolo significativo in esplicito parallelo con l’opera del Beccaria: Delle virtù e dei premi, un libro la cui nuova edizione critica a cura di Luca Clerici con prefazione di Luigino Bruni, è ora pubblicata dall’editrice Vita e pensiero (2018). L’opera di Dragonetti costituisce una delle pietre miliari di quella economia civile che ha saputo sviluppare le idee di fondo che si possono far risalire ad Aristotele, Cicerone, Tommaso d’Aquino e alla presenza francescana del centro Italia a cui si deve la fondazione dei primi Monti di pietà e delle banche popolari. Una scuola, quella dell’economia civile, che ha avuto in Giacinto Dragonetti insieme ad Antonio Genovesi uno dei suoi interpreti più illustri proprio negli anni in cui in Scozia Adam Smith e David Hume sviluppavano le basi dell’economia politica e del liberalismo.
La differenza di fondo tra le due visioni economiche sta nel fatto che gli scozzesi vedevano il mercato come elemento centrale della società, mentre per gli economisti italiani nel mercato, così come nelle imprese e nei rapporti economici, trovano spazio e valore anche l’amicizia, la reciprocità, la gratuità e tutte quelle dimensioni umane anche se non immediatamente riconducibili alla logica dello scambio e del valore monetario. Ecco allora l’importanza della virtù che “essendo un prodotto – scrive Dragonetti – non del comando della legge, ma della libera nostra volontà, non ha su di esse la società diritto veruno. E se si lascia la virtù senza premio la società commette un’ingiustizia simile a quella di chi defrauda gli altrui sudori”.
La logica di Dragonetti non è tuttavia quella degli incentivi, dei premi di produzione, della partecipazione agli utili: tutti elementi che si sono affermati nell’economia dell’utilitarismo e della competizione. Come sottolinea Luigi Bruni, “la prima ricompensa della virtù è la virtù stessa” perché c’è alla base una logica di gratuità, una visione positiva della capacità delle persone di basare le proprie scelte sull’armonia sociale e sul riconoscimento della dimensione della fraternità. Ma per raggiungere questi obiettivi c’è un grande bisogno di educazione e di cultura per saper cogliere i valori della diversità e del sostegno reciproco di ogni persona al cammino della società.