Non fatevi ingannare, né sviare dalle beghe di cortile tutte interne rappresentate dal voto regionale in Basilicata: questo weekend rischia di essere uno dei più importanti in assoluto per il futuro dell’Unione europea. Per tre ragioni, tutte legate fra esse da un filo tanto invisibile quanto strutturale. Primo, occorrerà vedere la reazione del movimento dei “gilet gialli” – o di ciò che ne resta – al giro di vite impresso dal Governo francese sul diritto a manifestare, dopo le devastazioni di sette giorni fa sugli Champs-Elysées. E non saranno gli eventuali incidenti o il numero di molotov lanciate a fare la differenza, sarà il dato della partecipazione. A Parigi, dopo che martedì scorso la grande manifestazione dei sindacati ufficiali contro il caro-vita e in difesa del potere d’acquisto si è sostanziata in un flop rispetto alle aspettative, ma, soprattutto, nel resto del Paese, dove oramai i contestatori sono diventati pulviscolo ribellista, spolverato via dal pragmatismo dei problemi reali e quotidiani che cercano risposte serie e strade percorribili.
Se oggi la Francia profonda, la provincia, le campagne dove domina sindacalmente la lobby degli agricoltori (debitamente ammansita da Macron con la Loi alimentation che garantisce prezzi più alti ai coltivatori e minor potere di imposizione sui prezzi alla grande distribuzione), risponderanno picche all’appello, la morte dei “gilet gialli” non sarà più solo clinica, ma ufficiale. Da bollettino medico. Una prece. Con tutto ciò che questo comporterà in vista del voto di fine maggio per le europee, visto che un enorme boccone elettorale di senza rappresentanza tornerà disponibile per i partiti che a vario titolo e con varia colorazione si oppongono all’agenda Macron: sarà guerriglia di appelli e promesse, senza esclusione di colpi. E dall’Eliseo si apprestano a gustarsi lo spettacolo, certo che sarà fratricida. Di conseguenza, favorevole al potere inteso come blocco di rappresentanza dello status quo. Se per caso, certi di aver ormai vissuto la loro primavera, i leader dei “gilet gialli” giocheranno il tutto per tutto, provocando la polizia per tentare la carta disperata del martirio politico, allora sarà definitivamente chiaro quale tipo di deriva sia in atto Oltralpe. Comunque vada, Emmanuel Macron dovrebbe suicidarsi per poter uscire sconfitto dalla situazione.
Non a caso, cari lettori, si è permesso un doppio colpo da posizione di forza – quantomeno, apparente e autoproclamata – in sede di vertice europeo: dettare la linea dura a tutti i membri rispetto alle condizioni che Londra dovrà rispettare per ottenere il rinvio a tempo – fino al 22 maggio, non il 30 giugno, comunque – del Brexit e trattare Giuseppe Conte da usciere sulla questione della Tavm tagliando corto la disputa sul loro incontro chiarificatore a latere con uno sprezzante “problema italiano, non ho tempo da perdere”. Se questo appare un leader in difficoltà e fiaccato dalle proteste della piazza, come sentiamo ripetere dagli analisti autorevoli, ditemelo voi.
E veniamo alla seconda ragione di interesse, la quale avrà come protagonista proprio il nostro primo ministro: la firma attesa per oggi del famoso e famigerato memorandum d’intesa con la Cina alla presenza di Xi Jinping, accolto a Roma come il Messia laico sotto forma di salvifico bancomat del nostro debito. Già, cari lettori, perché occorre essere onesti: la questione dell’export verso la Cina è vera e sacrosanta, dobbiamo aumentare la nostra quota di mercato e raggiungere almeno i livelli di Germania e Francia (quelli britannici appaiono siderali), ma per farlo non serviva affatto accettare la firma di un documento scritto e ufficiale che, in quanto tale, è ontologicamente vincolante per il futuro. Parigi esporta verso Pechino per un controvalore annuo di 20 miliardi di euro contro i nostri 13, ma per ottenere quel risultato, negli anni, non ha firmato memorandum bilaterali riguardanti i propri porti o le proprie infrastrutture cantieristiche o aeroportuali o industriali: semplicemente, ha ottenuto condizioni di favore per la penetrazione dei propri vini sul mercato del Dragone rispetto ai nostri, quando ancora la Cina era però un Paese emergente che cercava sponde. Non oggi, quando Pechino è player a livello mondiale. E faccio solo l’esempio più stupido possibile.
Lo ha fatto, insomma, con rapporti diplomatici stretti e operatività degli enti preposti al commercio estero, sponsorizzazioni, facilitazioni per alcune attività cinesi su suolo francese. Ma non mettendosi nelle mani di Pechino, attraverso l’accettazione di un piano infrastrutturale strategico che ti vincola non solo al di fuori degli interessi ufficiali dell’Ue, ma anche del G7 e della Nato. Insomma, stiamo isolandoci per un piatto di lenticchie. E, soprattutto, legittimando a livello internazionale il ruolo della Cina come economia di mercato non più emergente ma egemone. Una bella responsabilità.
E sapete perché? Principalmente per il grande inganno sovranista che alcuni, anche su queste pagine e per parecchi giorni, hanno spacciato come grande vittoria, come cambio di passo strategico e riconoscimento di un nuovo ruolo internazionale dell’Italia, in nome della politeia, se ben ricordate. Ovvero, mentre si guerreggiava con l’Ue, sparando a palle incatenate contro la Bce e il suo governatore per miserrime battaglie personali, il premier Giuseppe Conte, lo stesso che oggi con la sua firma ipotecherà una parte importante del nostro futuro economico, millantava in maniera più o meno esplicita l’appoggio americano nella gestione del nostro debito pubblico. Ovvero, acquisti e detenzioni di Btp da parte di misteriose entità statunitensi – visto che Washington non dispone di un Fondo sovrano a tal fine e di certo la Fed non intende riempirsi della nostra carta da parati sovrana, avendo già la propria in abbondanza da sbolognare – per tamponare l’assenza della Bce da ruolo di acquirente di ultima istanza, stante la fine del Qe al 31 dicembre scorso. Balle. Millanterie. Smargiassate da osteria, quando un bicchiere di troppo ti fa straparlare e spararla più grossa del consentito. E non lo dico io, lo dicono questi grafici elaborati da Nomura.
Il primo ci mostra come gli investitori stranieri non stiano affatto partecipando al rally azionario statunitense post-natalizio, forse perché consci della sua natura mendace e fondata unicamente su buybacks strutturali ed espansione a dismisura dei multipli. Di fatto, come vi dico da mesi, Wall Street campa appunto dei denari rimpatriato dalle grandi corporations grazie allo scudo fiscale della primavera 2018 e degli acquisti del parco buoi, Fondi pensione in testa. Più interessante, in prospettiva, la risposta Usa a questa dinamica contenuta nel secondo grafico: gli statunitensi non stanno più comprando debito straniero. Anzi, quello che hanno in detenzione lo scaricano. Scelta politica? Sovranista e autarchica? Strategica? Meramente finanziaria? Poco importa, i mitologici acquisti di Btp da parte dell’amico Donald si sono rivelati alla prova dei fatti ciò che vi dicevo sarebbero stati: una bufala di questo Governo e dei suoi cantori. Ora, disperati come siamo, ci vendiamo a Pechino pur di non vedere le aste che registrano rendimenti in aumento e lo spread che vola, visto che per quanto si sputi sulla Bce e sull’Europa, finora lo spread è rimasto dov’è – anzi, è calato negli ultimi giorni – solo grazie allo scudo del reinvestimento titoli proprio dell’Eurotower, non certo per le performance macro della nostra economia. O, magari, tanto per darci il contentino in vista delle firma, proprio da qualche acquisto cinese a prezzo di saldo. Chissà.
Terza ragione di interesse del weekend, il Brexit. E non tanto per le acrobazie che Theresa May dovrà compiere per inventarsi un accordo da sottoporre e far accettare a Westminster entro il 12 aprile, al fine di ottenere il rinvio fino al 22 maggio ed evitare di dover indire le europee anche nel Regno Unito. No, quello ormai è scontato. La cosa interessante sarà la mega-manifestazione attesa per oggi a Londra in sostegno della permanenza della Gran Bretagna nell’Ue, il completo ribaltamento del Brexit, attraverso decisione politico-parlamentare o un secondo referendum. Quanti saranno in piazza, intenti a marciare da Park Lane fino a Parliament Square? Ieri gli organizzatori di People’s Vote, la sigla ombrello dei Remainers, nell’annunciare trionfanti l’organizzazione di oltre 200 pullman da ogni angolo del Paese, si sono detti certi che verranno superate le 700mila persone che sfilarono lo scorso ottobre. E se il buongiorno si vede dal mattino, almeno per chi si oppone al Brexit, occorre registrare il fatto che dopo il discorso a Westminster di Theresa May di mercoledì sera, durante il quale la premier ha ribadito come ora le tre opzioni siano davvero sul tavolo (uscita con accordo, senza accordo o permanenza in Europa) e occorre scegliere, il sito governativo per firmare la petizione di revoca dell’Articolo 50, di fatto la strada maestra per cancellare il risultato del referendum, è stato letteralmente preso d’assalto, superando quota 2 milioni di firme e andando in crash a causa dell’eccessivo numero di contatti.
Ora, in base alla normativa britannica sulle petizioni (la quale impone al Parlamento di prendere in considerazione qualunque raggiunga almeno le 100mila adesioni), il Governo dovrà pubblicare una risposta formale e ufficiale. Theresa May, per uscire dall’impasse, cercherà l’incidente controllato, ovvero farsi bocciare per la terza volta l’accordo e dimettersi, passando la patata bollente del grande passo indietro al suo nemico di sempre, Boris Johnson, come amara ma sublime vendetta finale? Ma, soprattutto, quale sarà la copertura mediatica globale garantita all’evento di oggi, in cui saranno presenti fra gli altri, Hugh Grant, Annie Lennox e una pletora di volti noti di musica, cinema, tv e teatro? Quanto peseranno quelle persone in piazza sulle pressioni incrociate e sui giochi di potere interni sia ai Conservatori che al Labour?
Volete una risposta da parte mia? Per capire come andrà a finire, io userò un solo segnale proxy: il livello di presenza mediatica di Tony Blair durante la giornata, fosse anche soltanto per scattare selfie. Se sarà sovraesposto, onnipresente, gran cerimoniere, state certi che il Brexit non ci sarà mai. È già deciso, toccherà soltanto rendere deglutibile e digeribile il boccone. Buon weekend, sarà interessante. Nel frattempo, godetevi due dati dalla Germania, tanto per farvi un’idea di cosa ci aspetta. Il dato PMI manifatturiero di Berlino reso noto ieri si è semplicemente inabissato, scendendo da 47.6 a 44.7 contro le attese di 48 e al minimo dal 2012. E come prima reazione, ecco che il rendimento del Bund a 10 anni è tornato allo 0% spaccato, addirittura andando per un breve periodo sotto zero, ai minimi dal 2016. Serve altro Qe, c’è poco da discutere o fare conversazione. Serve la Bce. E in fretta. Ma l’Italia ha scelto la Via della Seta, ha scelto Pechino. Ne riparliamo la prossima settimana.