Nel nostro Paese si fa molta fatica a tener separata la valutazione giudiziaria di azioni condotte in campo economico dalla valutazione della convenienza e opportunità delle medesime.
La valutazione giudiziaria si preoccupa di stabilire se una determinata azione ricade in una fattispecie di reato, se è stata compiuta una violazione penalmente perseguibile. Le azioni economiche delittuose producono effetti economici negativi, spesso molto gravi, come casi rilevanti nella storia economica d’Italia ci ricordano: dalla Banca Privata di Michele Sindona all’Ambrosiano di Roberto Calvi ai più recenti casi Cirio e Parmalat.
Spesso però si trascura che danni economici altrettanto gravi possono essere prodotti anche solo attraverso cattive scelte gestionali, senza necessariamente commettere reati, e che nel settore pubblico essi sono più probabili per il fatto che gli amministratori che gestiscono le aziende e i politici che le controllano non subiscono personalmente le conseguenze negative delle cattive scelte, ma le ribaltano sui cittadini-azionisti, che le aziende pubbliche peraltro né gestiscono né controllano.
Le vicende Alitalia dalla metà del decennio ‘90 a oggi rappresentano un caso clamoroso e indiscutibile di cattiva gestione, la cui entità economica non si modifica se scopriamo che al suo interno sono stati commessi anche dei reati.
La magistratura di Roma sta indagando, opportunamente, in questo senso. Ha aperto un’indagine dopo la dichiarazione d’insolvenza di Alitalia di fine agosto scorso, sta esaminando i bilanci aziendali dell’ultimo decennio e nei giorni scorsi ha iscritto nel registro degli indagati gli amministratori che si sono succeduti alla guida dell’azienda dal 2000 al 2007. L’ipotesi di reato accreditata dai media è quella di bancarotta.
Da economista poco esperto del diritto penale sono andato ad aprirmi la Garzantina che alla voce bancarotta recita: reato dell’imprenditore commerciale che lede fraudolentemente o colposamente le ragioni dei creditori. Anche il lettore inesperto può subito rendersi conto che qui c’è qualcosa che non torna: nel caso Alitalia l’imprenditore commerciale non c’è, anche se l’azienda avendo forma societaria era un’impresa commerciale a tutti gli effetti; c’è invece lo Stato imprenditore che aveva il controllo economico dell’azienda e la usava per finalità non esclusivamente commerciali, ma politiche e di politica economica.
Tali finalità possono risultare in contrasto con un’equilibrata gestione aziendale e condurre a deficit di bilancio anche consistenti, tali da mettere in crisi, nel caso di imprese private, la capacità di adempiere agli obblighi verso i creditori; questo rischio non interessa invece lo Stato che può sempre tassare i cittadini per ripianare le perdite delle sue aziende.
Alitalia, come tutte le altre aziende in comando politico, ricadeva in questa fattispecie sino alla liberalizzazione del mercato che ha trasformato gli aiuti di Stato per gli “obblighi politici” delle aziende in strumento in grado di violare la concorrenza, e, come tale, contrastato dall’Unione Europea. Purtroppo sino alla liberalizzazione una gestione dissennata e non orientata al mercato era pienamente compatibile, a causa della proprietà pubblica, tanto con la sopravvivenza dell’azienda nel tempo quanto con la soddisfazione delle ragioni dei creditori.
Non vi è quindi bisogno di scomodare l’ipotesi di comportamenti fraudolenti degli amministratori (che non possiamo ovviamente escludere che vi siano stati) per spiegare il dissesto di Alitalia: esso deriva dalla congiunzione di due fattori molto differenti, il comando politico dell’azienda da un lato e la liberalizzazione dall’altra.
Uno solo dei due non sarebbe bastato: la sola liberalizzazione senza comando politico avrebbe condotto a scelte obbligate di risanamento gestionale, di reindirizzo strategico e di integrazione internazionale (che fu peraltro proposta in due occasioni dal management, dapprima con Klm, in seguito con Air France); il solo comando politico senza liberalizzazione (che persiste ancora felicemente nelle ferrovie, nel trasporto pubblico locale, in quello marittimo e, in misura minore, nelle Poste) sarebbe stato sostenibile con opportune iniezioni nell’azienda di risorse finanziarie del contribuente, che infatti continuarono a essere utilizzate quanto più a lungo possibile.
La stessa soluzione Cai non è altro che un tentativo ingegnoso di proseguire il comando politico in un’epoca in cui le sovvenzioni finanziarie dirette da parte dello Stato non sono più ammesse; infatti nel piano Cai-Governo-Intesa i vecchi benefici monetari periodici a compensazione del comando politico sono sostituiti da un danno posto una tantum a carico del contribuente (la bad company) e da benefici non monetari quali la rimonopolizzazione per legge delle tratte domestiche e la sterilizzazione dell’antitrust.
Le responsabilità del dissesto Alitalia sono in primo luogo politiche, derivano dall’operato dello Stato imprenditore; il management, che è sempre stato succube della politica per ragioni di carriera, ha anch’esso una grossa responsabilità, che per sfortuna o per fortuna non è un reato: l’assenza di indipendenza.
Un giovane De Gaulle sosteneva che i generali perdono le guerre perché non sanno opporsi in tempo ai comandi sbagliati dei loro capi; in maniera analoga i manager pubblici perdono le aziende perché non sanno opporsi in tempo ai comandi sbagliati dei loro datori di lavoro.