Entro oggi, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, dovrà rispondere a 39 quesiti formulati a nome della Commissione europea dal Commissario agli Affari economici, Olli Rehn, in una lunghissima lettera dello scorso 4 novembre. Scopo della medesima è quello di svelare le carte del governo italiano in relazione alle promesse di provvedimenti di politica economica formulate nella famosa lettera del Presidente del Consiglio di due settimane fa e riconfermate al vertice europeo dello scorso 26 ottobre. I 39 quesiti chiedono infatti i dettagli e il calendario di attuazione di ogni misura di politica economica indicata dal governo italiano con particolare riferimento ai tempi di adozione, agli strumenti legislativi previsti, all’impatto sul bilancio pubblico. Per ciascun provvedimento la lettera chiede al punto uno di indicare se è già stato varato, e quindi risulta in corso di attuazione, e quali risultati sono stati ottenuti tramite la sua attuazione. Se non è stato ancora varato, in quanto approvato dal governo ma non ancora dal Parlamento, è chiesto di indicare i tempi necessari all’approvazione da parte del Parlamento e alla sua entrata in vigore. Se, infine, si tratta di un provvedimento nuovo che non ha ancora iniziato il suo iter di approvazione la lettera domanda di fornire un piano preciso per la sua adozione e applicazione che indichi le scadenze e la tipologia di strumento legislativo che si intende utilizzare.
La lettura della lettera dà l’idea di una marcatura stretta della politica economica italiana, mai vista prima in relazione ad altri paesi dell’euroarea, probabilmente neppure in relazione alla ben più problematica, per condizioni della finanza pubblica e decrescita economica, Grecia. Essa non fa piacere ed è evidente che rappresenta un commissariamento della nostra politica economica la quale dovrebbe essere invece prerogativa del legislativo e dell’esecutivo nazionale, ovviamente nei limiti degli impegni comunitari sottoscritti. Nello stesso tempo non si può non ricordare che la libertà e autonomia di qualsivoglia soggetto, cittadino, impresa o Stato, che abbia contratto un forte debito e non sia in grado di rimborsarlo alla scadenza a meno di sostituirlo con un debito ulteriore è necessariamente limitata dai vincoli del medesimo.
Nessuno ci ha imposto e nessuno ci ha chiesto di indebitarci sino a oltre 1900 miliardi di euro e sino a circa il 120% del Pil: siamo noi che lo abbiamo scelto in totale autonomia per finanziare in deficit la nostra spesa pubblica e conservare nello stesso tempo un ingente patrimonio pubblico formato da imprese e immobili che almeno in parte i secondi e in parte consistente le prime sarebbe invece risultato preferibile privatizzare. Altri paesi europei a elevata presenza dello Stato nell’economia e conseguente elevata spesa pubblica sul Pil, quali Svezia, Finlandia e Danimarca, hanno invece preferito negli stessi anni coprirla in via quasi esclusiva attraverso la tassazione, tanto che il loro debito sul Pil è compreso tra il 40% e il 45%, appena un terzo del dato italiano, ed essi vengono considerati i paesi a minor rischio default tra tutti quelli dell’area Ocse. Se ci fossimo comportati come loro, oggi non ci sarebbe nessuna lettera di Rehn a cui rispondere e nessuno spread problematico rispetto ai Bund tedeschi.
Il secondo dei 39 punti della lettera di Rehn richiama l’impegno nella lettera del governo italiano ad attuare una manovra correttiva aggiuntiva “qualora il deteriorarsi del ciclo economico portasse a un peggioramento del deficit” e dovesse in conseguenza “palesarsi una minima deviazione rispetto all’iter fiscale tracciato”. Poiché la Commissione europea ritiene che “nell’attuale contesto economico la strategia fiscale programmata non garantisca il raggiungimento di un pareggio di bilancio entro il 2013, si renderanno necessari ulteriori provvedimenti per raggiungere gli obiettivi fissati per il 2012 e il 2013”. La lettera chiede in conseguenza: “Si stanno predisponendo sin d’ora a tal fine delle misure aggiuntive? Se è così, di che tipo di misure si tratta? Potrebbero assumere la forma di ulteriori tagli alla spesa pubblica sulla base dei risultati ottenuti da un’accurata revisione della spesa?” Si tratta evidentemente di domande retoriche. Questa parte della lettera può essere interpretata in un solo modo: 1) il peggioramento del ciclo economico renderà impossibile rispettare le previsioni di entrata, spesa e saldi di bilancio dell’Italia; 2) è quindi necessaria un’ulteriore manovra correttiva; 3) essa dovrà prioritariamente ridurre la spesa pubblica (anziché aumentare ancora la pressione fiscale) dopo una sua accurata revisione. È l’esatto contrario di quello che ha fatto Tremonti con la molteplice manovra estiva, tutta basata su incrementi di imposte e senza alcuna riduzione strutturale della spesa, la quale non può evidentemente essere attuata tramite tagli lineari, come avvenuto nei provvedimenti degli anni precedenti.
I successivi due punti si occupano delle privatizzazioni e dello stock del debito. Vale la pena di riportarli integralmente per la chiarezza e la totale impossibilità di dubbi interpretativi: “(3) Il governo è in grado di illustrare nei dettagli i piani che intende attuare per procedere a una dismissione dei beni di proprietà statale? Il governo sta prendendo il considerazione l’idea di vendere quote azionarie di grandi aziende di proprietà statale? Gli stimati introiti di 5 miliardi di euro l’anno per i prossimi tre anni prenderanno in considerazione dividendi più bassi e spese più alte sugli affitti che ci si può aspettare in conseguenza di tali transazioni? (4) Il governo è in grado di delineare un piano di riduzione del debito lordo che le autorità intendono lanciare a partire dal 31 dicembre 2011, con l’assistenza della commissione ad hoc e di alto livello di cui si parla nella lettera? Quali misure si stanno contemplando, oltre e in più rispetto all’entrata di 5 miliardi di euro l’anno derivanti dalla vendita di asset, di cui sopra?”.
Queste domande, formulate in maniera più esplicita, avrebbero suonato così: “Come intendete realizzare le dismissioni promesse di asset pubblici? Perché non avete incluso nel programma le grandi aziende pubbliche nazionali? Siete certi di aver calcolato i proventi attesi dalle dismissioni al netto e non al lordo di maggiori oneri (locazioni passive) e minori entrate (dividendi di imprese dismesse)? Cosa pensate di aggiungere al programma di dismissioni dato che 5 miliardi all’anno di proventi sono (ampiamente) insufficienti?”. Sulla necessità delle privatizzazioni per ridurre lo stock del debito e della necessità di includervi le grandi imprese pubbliche nazionali la lettera di Rehn va nell’esatta direzione dei numerosi interventi su queste pagine che abbiamo dedicato al tema a partire dal luglio scorso. In un’intervista di pochi giorni fa abbiamo indicato le privatizzazioni delle grandi imprese pubbliche nazionali come una delle tre riforme chiave necessarie per riacquisire credibilità internazionale. Se Tremonti vincesse la sua tradizionale idiosincrasia rispetto alla riduzione dell’intervento pubblico in economia potrebbe forse ispirarsi a questi contributi per scrivere la risposta.
Il quinto punto della lettera si occupa delle pensioni: “(5) Nella lettera, il governo descrive l’impatto dell’attuale legge pensionistica, inclusa l’applicazione, anticipata e decisa di recente, di un collegamento automatico all’aspettativa di vita e di un livellamento graduale dell’età pensionistica per le donne nel settore privato che, in base alle proiezioni disponibili per l’aspettativa di vita, dovrebbe portare a 67 anni entro il 2026 l’età obbligatoria per le pensioni di vecchiaia. Tuttavia, l’età della pensione per le donne nel settore privato resterà inferiore a quella degli uomini per molti anni a venire (contrariamente a quanto accadrà nel settore pubblico). Oltre a ciò, nei prossimi anni le norme che regolano l’andata in pensione consentiranno di fatto di farlo in età ancora relativamente giovane. Il governo sta studiando – per poter affrontare e risolvere queste lacune della recente riforma – dei provvedimenti adeguati, per esempio una restrizione ulteriore dei criteri di esigibilità della pensione di anzianità, o addirittura una loro abrogazione totale, e una più rapida transizione verso il livellamento tra i generi dell’età pensionistica standard?”.
Possiamo tradurne il significato in parole più semplici: “Poiché allo stato attuale la riforma delle pensioni non è sufficiente, che cosa aspettate a riformare almeno le pensioni di anzianità e a livellare più rapidamente l’età pensionistica tra donne e uomini anche nel settore privato?”. Anche nel caso delle pensioni potrebbe andar bene a Rehn quanto suggerito nella citata intervista: «Il secondo (fattore chiave per ridare credibilità) riguarda le pensioni. O cominciamo a riformare il sistema attuale adottando il sistema contributivo, partendo dalle pensioni di anzianità, oppure è difficile uscire da questo impasse. Noi alla fine dovremmo fare solo quello che gli svedesi hanno fatto negli anni Novanta, adottando il sistema contributivo (in maniera generalizzata). Che funziona in uno dei Paesi che è notoriamente molto attento alla tutela dei cittadini. Credo che questa sia un riforma che potrebbe portarci maggior credito internazionale».
Trascuro il punto 6, dedicato al pareggio di bilancio, perché richiederebbe un’analisi molto approfondita. Mi limito a ricordare che molte risposte ai dubbi della Commissione europea è in grado di darle la proposta di regola costituzionale del pareggio che ha come primo firmatario il Sen. Nicola Rossi e che è presentata sul sito dell’Istituto Bruno Leoni. Essa ha, tra molti altri pregi, anche quello di prevedere un tetto alla spesa pubblica rispetto al Pil (posto al 45%) che rappresenta una regola complementare a quella del pareggio di bilancio (necessaria per evitare, ad esempio, di ritrovarci con un bilancio pubblico in pareggio, ma con una spesa e con entrate totali al 60% del Pil).
Il punto 7 riguarda la riforma fiscale: “(7) Con la riforma fiscale e dell’assistenza sociale, come intende il governo spostare l’onere fiscale dal lavoro ai consumi e alla proprietà immobiliare? Il governo sta forse prendendo in considerazione di reintrodurre l’Ici, o tassa di proprietà sulla prima casa?” che tradotto in parole più semplici suona così: “Perché avete abolito per intero l’Ici sulla prima casa e perché non vi affrettate a introdurla?”. Su questo tema Tremonti potrebbe ispirarsi a una nostra proposta formulata poco tempo fa su queste pagine: «Non è il caso di tornare a tassare la prima casa tout court, perché il fatto che una persona sia proprietaria dell’immobile in cui abita non è certamente una cosa da penalizzare. Tuttavia, non è nemmeno equo esentare tutte le prime case indipendentemente dalle dimensioni e dalla numerosità delle famiglie che vi abitano. La soluzione quindi è un’Ici modulata sui carichi famigliari, in modo che si possa tenere conto dei bisogni abitativi delle famiglie. La cosa migliore potrebbe essere esentare una parte dell’immobile, in termini di metri o vani catastali proporzionali ai membri della famiglia. Tanto per fare un esempio, una famiglia di quattro persone sarebbe esente per quattro vani catastali, mentre pagherebbe quelli residuali. Un single, invece, sarebbe esente per un solo vano e pagherebbe per tutti gli altri».
Salto per insufficiente competenza personale i punti dall’8 al 12, riguardanti i fondi strutturali e le politiche per la crescita delle regioni meno sviluppate, e passo ai punti 13-16 relativi a capitale umano, scuola e università: “(13) Quali caratteristiche avrà il programma di ristrutturazione delle singole scuole che hanno ottenuto risultati insoddisfacenti ai test Invalsi? (14) Come intende il governo valorizzare il ruolo degli insegnanti nelle singole scuole? Quale tipo di incentivo il governo intende varare? (15) Il governo potrebbe fornirci ulteriori dettagli su come intende migliorare ed espandere l’autonomia e la competitività tra le università? In pratica, che cosa implica la frase ‘maggior spazio di manovra nello stabilire le tasse di iscrizione’? (16) Per quanto riguarda la riforma dell’università, quali misure e quali provvedimenti devono essere ancora adottati?”.
Su università e scuola, il governo potrebbe avviare riforme che accrescano notevolmente l’autonomia dei singoli istituti e li mettano in concorrenza l’uno con l’altro, in modo da indirizzarli spontaneamente verso percorsi di efficienza. Una riforma di questo tipo richiede tuttavia che il governo smetta di finanziare gli istituti scolastici in funzione dei fattori produttivi che impiegano (personale docente in primo luogo) e li finanzi in funzione della quantità e qualità del prodotto formativo che realizzano. Si tratterebbe in sostanza di attivare dei compensi per anno-studente erogato, differenziati anche in maniera marginale in funzione dei risultati di qualità conseguiti (ad esempio, esiti dei test Invalsi).
In relazione all’adozione di una riforma di questo tipo nel caso degli atenei pubblici ho esaminato in dettaglio le problematiche e le possibili soluzioni in un ampio contributo per l’Istituto Bruno Leoni scritto con Gabriele Zelioli che giunge alle seguenti conclusioni: «È venuto il momento di proporre un metodo più razionale, più semplice e più radicale per finanziare pubblicamente la formazione universitaria: smettiamo di finanziare gli atenei perché possano ‘comperare’ i professori e finanziamo invece gli studenti, a condizione che si impegnino, affinché possano comperare dagli atenei servizi formativi. Quindi, la proposta consiste nel sostituire il finanziamento pubblico agli atenei con un finanziamento agli studenti, attraverso borse annuali distinte per tipologia di corso di laurea e differenziate sulla base della condizione economica familiare dei beneficiari. La riconferma della borsa verrebbe subordinata al raggiungimento di una soglia minima di risultato da parte del beneficiario in termini di crediti conseguiti rispetto ai crediti massimi previsti». Si tratta di una riforma liberale dell’università piuttosto differente dalla riforma dirigistica avviata un anno fa dal Ministro Gelmini.
Salto, sempre per insufficiente competenza, i punti 17-21 sul mercato del lavoro, i punti 26-28 su imprenditoria e innovazione e i punti 34-35 sulla giustizia. I punti 22-25 trattano delle politiche di concorrenza: “(22) Come intende il governo rafforzare gli ‘strumenti di intervento dell’Authority per la concorrenza con l’obiettivo di evitare la mancanza di coerenza tra la promozione di una situazione di concorrenza paritaria e le regolamentazioni a livello regionale e locale’? (23) Per quanto riguarda la legge annuale sulla competitività, la lettera sottolinea che tramite strumenti legislativi diversi dall’adozione di questa legge annuale si sta pensando di regolamentare il settore della distribuzione dei carburanti e il settore dell’assicurazione obbligatoria degli autoveicoli. Ciò equivale a dire che la legge sulla competitività stessa, che già copre i servizi postali e i trasporti (per esempio le ferrovie, le autostrade e gli aeroporti), nonché la distribuzione dell’energia elettrica, non sarà adottata? (24) La lettera parla di ‘misure atte a rafforzare l’apertura delle professioni e i servizi pubblici locali’. Il governo potrebbe fornire ulteriori dettagli sui contenuti di queste misure e sui settori che ne sarebbero interessati? Abbiamo compreso bene che c’è l’intenzione di rimuovere le barriere di ingresso alle professioni? Oltre a ciò, nella dichiarazione del summit dei paesi della zona euro del 26 ottobre 2011 si riferisce che l’Italia si impegna ad ‘abolire le tariffe minime nei servizi professionali’, ma di ciò non si parla nella lettera. Quali sono le intenzioni del governo italiano a questo proposito? (25) È possibile ottenere maggiori informazioni che spieghino quali provvedimenti di riforma si pensa di varare nel settore delle acque, malgrado i risultati del recente referendum?”.
Tradotte le questioni principali, in parole semplici suonerebbero così: “Perché non adottate la legge annuale di concorrenza, mai venuta alla luce, e accogliete le proposte dell’Antitrust (risalenti peraltro ai primi mesi del 2010)? Perché non volete accettare le proposte di miglioramento della concorrenza relative a servizi postali, ferrovie, autostrade, aeroporti e distribuzione di energia elettrica? È vero che siete disponibili a rimuovere le barriere di ingresso alle professioni e abolire le tariffe minime nei servizi professionali?”. Su tutti questi aspetti è evidente che le mancate liberalizzazioni servono per proteggere dalla concorrenza le imprese pubbliche e le categorie professionali interessate, ma è anche evidente che in tal modo non si favorisce la crescita, l’efficienza, la qualità dei servizi, l’accesso al lavoro dei giovani qualificati. Come scrivevamo lo scorso luglio su queste pagine, «per rilanciare la crescita senza maggior spesa pubblica, anzi con minor spesa, bisogna liberalizzare molto i mercati. Quali e in che modo lo ha scritto in dettaglio e con grande chiarezza l’Antitrust nei primi mesi del 2010 in un parere a governo e Parlamento che avrebbe dovuto essere recepito nella legge annuale di concorrenza, legge che, a un anno e mezzo di distanza, non ha ancora visto la luce. Nel 2011 l’inascoltata Antitrust non ha neppure formulato quello che avrebbe dovuto essere il nuovo parere annuale”. Su questi temi serve un cambiamento di rotta a 180 gradi che si può attuare semplicemente traducendo in legge le proposte molto chiare e condivisibili dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.
I punti 29-33 si occupano di semplificazione amministrativa ed efficienza della burocrazia pubblica. Non li riporto perché sono piuttosto lunghi e mi limito a ricordare che l’Ue vuole conoscere modalità e tempi dei provvedimenti di riforma, in particolare quali risultati effettivi ha sinora prodotto la riforma Brunetta. Per una proposta di riforma più radicale del settore pubblico ripropongo quanto già scritto nello scorso luglio: «Per ridare efficienza alla spesa pubblica si dovrebbe provare a rovesciare l’attuale modello organizzativo pubblico, consistente in una molteplicità di organizzazioni, agenzie, uffici per i quali il finanziamento tramite tassazione garantisce che possano pagare i fattori produttivi che usano. Queste organizzazioni, agenzie e uffici, pur restando pubblici, possono essere resi autonomi, separati tra di loro e da chi li finanzia, messi in concorrenza e pagati per i servizi che effettivamente producono anziché per i fattori produttivi che consumano. Si tratterebbe in sostanza di prendere dall’economia di mercato due dei tre elementi chiave che la caratterizzano: l’uso del sistema dei prezzi e la concorrenza, senza necessità di adottare anche il terzo, la proprietà privata. Organizzazioni pubbliche in concorrenza tra di loro, finanziate sulla base della quantità e qualità di quello che producono, sarebbero indirizzate sulla via dell’efficienza e poste di fronte al rischio di procedure di fallimento/liquidazione/accorpamento in caso di performance non adeguate. Nel caso dei servizi pubblici a domanda individuale, che sono circa i due terzi del totale, l’ideale è che sia il cittadino-consumatore a pagare direttamente il prezzo utilizzando un’equivalente riduzione delle tasse e, in caso d’incapienza, trasferimenti pubblici ad hoc o voucher. Questa riforma avrebbe il vantaggio di sottrarre cospicue risorse a chi sinora ha effettuato scelte inefficienti senza subirne conseguenze (classe politica e dirigenza pubblica a essa sottoposta) e di ridarle ai cittadini i quali hanno un robusto incentivo, l’interesse personale, a usarle in maniera corretta e a non sprecarle».
Gli ultimi punti della lettera di Rehn si occupano di riforme costituzionali diverse dal pareggio di bilancio, di riforma delle istituzioni politiche e di possibili risparmi da esse derivanti e si chiudono con una domanda molto impegnativa che riportiamo integralmente: “(39) Il governo potrebbe fornirci ulteriori dettagli sulle misure finalizzate a migliorare la governance del Paese tramite la riduzione del numero dei membri del Parlamento e il miglioramento dell’intero iter decisionale, come pure del ruolo del governo e della maggioranza?”. Questa è una domanda impegnativa, forse l’unica alla quale Rehn non sottintende una risposta precisa (tranne l’ovvia necessità di ridurre i membri del Parlamento) e alla quale non è possibile dare una risposta in breve. Ci impegniamo tuttavia a un prossimo contributo sulla relazione tra efficienza economica di un Paese/sistema economico e la sua governance politica e chiudiamo con due note:
1) In primo luogo, il dispiacere che Tremonti, non condividendo un approccio liberale all’economia, non possa trarre spunto da queste note per la sua lettera di risposta al Commissario Rehn;
2) In secondo luogo, osservando che la lettera di Rehn rappresenta, come ai tempi della vecchia fotografia su pellicola, il negativo di un impegnativo programma di governo. Basta stamparne il positivo, le risposte implicite nelle domande, ed ecco che il programma viene fuori.
In sintesi, l’Italia ha bisogno di un governo che non ha bisogno di scrivere un programma economico, perché questo è già il suo programma.