Negli anni ‘60 gli autori che studiavano lo sviluppo avevano una profonda cultura umanistica. Per loro lo sviluppo dei popoli era certamente un problema tecnico ed economico, ma soprattutto umano, dell’uomo, riguardante la storia e la cultura (e anche la religione) di un popolo. Più tardi, questa cultura umanistica è stata sconfitta, in un primo momento, dalla cultura tecnologica ed economicista degli organismi dell’Onu e dei governi occidentali e, in seguito, dalla corrente leninista-maoista che attribuiva le radici del sottosviluppo al colonialismo e all’imperialismo capitalista.
Negli anni ‘80 si è incominciato a capire che lo sviluppo dei popoli può venire solo dall’istruzione, dall’evoluzione di mentalità e culture, dall’educazione a produrre di più, da governi stabili che sostengano l’agricoltura, dalla libertà economica e dal libero mercato mondiale.
L’esperienza della Chiesa la descrive Giovanni Paolo II nella Redemptoris missio: «[…] lo sviluppo di un popolo non deriva primariamente né dal denaro, né dagli aiuti materiali, né dalle strutture tecniche, bensì dalla formazione delle coscienze, dalla maturazione delle mentalità e dei costumi. È l’uomo il protagonista dello sviluppo, non il denaro o la tecnica. La Chiesa educa le coscienze rivelando ai popoli quel Dio che cercano, ma non conoscono». «Col messaggio evangelico la Chiesa offre una forza liberante e fautrice di sviluppo». Bisogna riflettere su queste parole, che corrispondono all’esperienza dei missionari.
“Educazione” viene dal latino e-ducere, tirar fuori, allevare, orientare verso un fine. Rosmini diceva: «L’educazione ha lo scopo di rendere l’uomo autore del proprio bene». Sul tema dello sviluppo Paolo VI ha scritto nella Populorum progressio: «Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere sviluppo autentico, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo». E ancora: «In tal modo potrà compiersi in pienezza il vero sviluppo, che è il passaggio, per ciascuno e per tutti, da condizioni meno umane a condizioni più umane». Il collegamento fra i due termini è chiaro: l’educazione è il motore principale dello sviluppo, il mezzo, la via che permette di far crescere un uomo, un popolo e l’intera umanità nell’umanesimo integrale. Non si può separare l’economico dall’umano, come capita troppo spesso nella nostra società e cultura.
L’esperienza dei missionari sul campo dice questo: il popolo (nel Terzo mondo) non è istruito. È povero, prima ancora che economicamente, culturalmente. E le due cose vanno di pari passo: quando parlo della necessità di educare questi popoli non parlo solo dell’importanza dell’alfabetizzazione, che manca, e di cui uomini e donne hanno disperato bisogno. Parlo soprattutto dell’importanza di insegnare loro a produrre: i Paesi del Terzo mondo sono poveri perché non sanno creare ricchezza. La ricchezza è una torta da produrre, prima di distribuirla: questo bisogna dirlo forte e chiaro! Gli aiuti andrebbero dati (bisogna darli!) non “da Stato a Stato” ma “da popolo a popolo”. Perché gli aiuti “da Stato a Stato” spesso arrivano nelle tasche dei primi ministri, dei capi di Stato, e questi di fatto li sequestrano. Se gli aiuti sono “da popolo a popolo”, le cose vanno diversamente.
Sono stato recentemente a Potenza, dove una parrocchia si è “gemellata” con un paese in Albania. È impressionante vedere quanto sono riusciti a fare: non soltanto hanno mandato dei soldi, ma soprattutto sono andati personalmente ad aiutare, a portare la propria testimonianza; hanno costruito e insegnato a costruire. Ecco quel che intendo quando parlo di aiuti “da popolo a popolo”: aiuti che servono in primo luogo a educare (e diciamo la verità, anche a essere educati!), a gettare ponti di comprensione, di solidarietà.
Gli aiuti “da Stato a Stato” producono poco, o peggio costruiscono inutili cattedrali nel deserto. Mi viene in mente un esempio: a Bissau, capitale della Guinea Bissau, lo Stato italiano ha fatto costruire un mulino per il riso, modernissimo, enorme. Completato 20 anni fa, non ha mai funzionato, non ha mai prodotto un grammo di riso: al contadino non viene neanche in mente di utilizzarlo. Porta a casa il riso e lo fa pestare e lavorare da sua moglie. A Vercelli, da dove io vengo, produciamo 75 quintali di riso all’ettaro. Nell’Africa rurale e tradizionale, non nelle fattorie moderne, ne producono appena 5. L’abisso tra 75 e 5 è l’abisso fra ricchi e poveri. In sostanza, se noi siamo ricchi, è perché sappiamo creare ricchezza. E questo non per una superiorità razziale, assolutamente no! Ma perché siamo nati, senza nostro merito, in una civiltà che in centinaia e migliaia di anni ha compiuto faticosamente un lungo cammino verso lo “sviluppo”. Il tema andrebbe approfondito, perché dovremmo chiederci: per quale motivo, partendo da quali radici l’Europa è arrivata per prima allo “sviluppo” moderno, certo molto imperfetto, ma che al momento è l’unico che conosciamo?
Non basta alfabetizzare e insegnare scienze e tecniche, occorre istruire ed educare a quei valori che hanno permesso ai popoli europei di inventare i diritti dell’uomo e della donna, la democrazia, la giustizia sociale, la scienza e la medicina moderna, etc. Solo con una lettura umanistica, culturale e religiosa delle radici di sviluppo e sottosviluppo, si può giungere a una comprensione più profonda e autentica del cammino che l’intera umanità deve ancora fare per un mondo più umano e umanizzante per tutti.
Tratto da “Atlantide – un mondo che fa parlare altri mondi”, Marzo 2007