Susanna Camusso, segretaria confederale CGIL è di recente intervenuta nel dibattito aperto dal Manifesto “Immagina che il lavoro” della Libreria delle Donne di Milano, che si apre affermando il superamento della parità, e la necessità di rivoluzionare le modalità di lavoro, ormai lontane dalla vita delle donne e degli uomini.
Segretaria Camusso condivide l’idea che si debba partire dalla flessibilità, dalla delocalizzazione, dalla destrutturazione del lavoro dipendente per affrontare il problema della conciliazione tra famiglia e lavoro?
Condivido l’idea che il sistema lavorativo vada profondamente ripensato: mettendo in discussione il criterio del presenzialismo, ragionando per obiettivi invece che per timbrature e per ore di occupazione quotidiana della scrivania. Non vorrei però che se ne facesse una questione elitaria: quante lavoratrici sarebbero interessate da questo discorso? Le misure di flessibilità sul lavoro presuppongono una libertà di scelta che per molte donne non esiste, per ragioni anzitutto economiche: donne che non possono optare per uno stipendio dimezzato, che non possono svolgere la loro attività da remoto, che non possono gestire in autonomia il loro orario o la loro presenza sul posto di lavoro. Penso a operaie, infermiere, cassiere, alle lavoratrici meno avvantaggiate: per tutte costoro, la possibilità di conciliazione passa anzitutto per servizi pubblici di assistenza come gli asili nido.
E se non fosse il nido la risposta giusta, anche per le lavoratrici meno avvantaggiate? Svariate ricerche, più numerose all’estero che nel nostro paese, mettono in guardia contro la separazione precoce e prolungata dei figli dalla madre nella primissima infanzia
Per ogni ricerca del genere, ne esiste una che afferma l’opposto. Personalmente, nutro un’ottima opinione sugli asili nido – fatta salva, naturalmente, la qualità del servizio, e l’opportunità di non usare le strutture come fossero parcheggi in cui lasciare i bambini per l’intera durata della giornata. L’orario di apertura esteso dei nidi non serve a questo, ma a incontrare le esigenze di più lavoratori possibile, e a non scaricare sui bambini i disagi del pendolarismo. Detto questo, ritengo la scolarizzazione un valore, anche a partire dalla prima infanzia.
Dati i dubbi sugli effetti che l’affidamento al nido sortirà sui bambini, perché non lasciare aperta una via di fuga? Cosa ne pensa di incentivare misure come sgravi fiscali per la flessibilità, assegni familiari, congedi parentali retribuiti e prolungati?
CONTINUA A LEGGERE L’INTERVISTA, CLICCA SUL SIMBOLO “>>” QUI SOTTO
Misure come queste sarebbero auspicabili, ma solo nel quadro di una cultura lavorativa già profondamente trasformata. Allo stato attuale delle cose, se si introducessero, ad avvalersene sarebbero solo le donne: con i risultato di marginalizzare ancor di più il lavoro femminile, già erroneamente percepito in azienda come un costo superiore a quello maschile. Se alla pausa obbligata della maternità si aggiungono le interruzioni scelte volontariamente dalle sole donne, si consolida il pregiudizio delle lavoratrici improduttive rispetto ai loro colleghi uomini – che al contrario continueranno a non usufruirne, perché non vogliono rischiare di essere accantonati. La situazione non cambierà mai veramente per le donne, senza una cura d’urto.
Cosa intende precisamente per “cura d’urto”?
Intendo uno shock positivo, che rovesci questo sistema. La mia proposta è quella di introdurre la paternità obbligatoria: vale a dire, estendere l’obbligo di astensione dal lavoro per tre mesi anche ai padri; si tratterebbe, beninteso, di astensione retribuita, come accade per quella delle madri. Questo vorrebbe dire equiparare di fatto la fruibilità del lavoro maschile a quella femminile, e quindi scalzare l’alibi dei datori di lavoro a proposito della “inaffidabilità” delle donne: se a “sparire” non fossero più solo le madri, ma anche i padri, si smetterebbe di parlare di “sparizione”, e si potrebbe avviare una positiva riconsiderazione del rapporto tra tempi del lavoro e tempi della vita.
Lei crede che tanto basterebbe a riaprire il discorso sulla flessibilità?
Credo sia il presupposto indispensabile. A partire da questo rovesciamento, si potrebbe riaprire il discorso sulla flessibilità, intesa ormai non più come l’aggravante di un crimine a carico delle donne, ma come variabile tra le altre in un modello lavorativo che non assolutizza la presenza, ma fa del risultato finale e del raggiungimento di obiettivi il suo criterio guida.
(Paola Liberace)