L’Università italiana non versa in buone condizioni. L’Università italiana non è certamente solo un mondo di sprechi e privilegi, di baronie e di corruzione, ma è evidente che non riesce a reggere il confronto con i migliori sistemi universitari di altri Paesi del mondo. Nelle graduatorie internazionali le Università italiane non compaiono se non in casi del tutto eccezionali, il reclutamento di docenti stranieri o di docenti italiani formatisi all’estero procede con lentezza, l’attrattività verso studenti stranieri non è elevata. Potremmo accontentarci ed essere felici di competere tra i primi della serie cadetta. Oppure possiamo provare a chiederci cosa si possa fare per primeggiare nella classifica della serie maggiore. Mi pare che il nostro Paese, per storia e rilevanza, meriti di provare almeno a giocare questa partita.
Il disegno di legge di riforma dell’Università approvato dalla riunione del Consiglio dei Ministri di fine ottobre costituisce a mio avviso una buona base di partenza. Partiamo dalla selezione della faculty, il fulcro di ogni buon sistema universitario. La riforma prevede che i giovani docenti possano essere confermati con ruoli a tempo indeterminato dopo alcuni anni di “prova”. Mi pare una scelta corretta, perché la vocazione del ricercatore esige un po’ di tempo per essere scoperta. Le qualità di un ricercatore non si possono scoprire se non dopo un periodo di apprendistato, un po’ come avviene nelle botteghe artigiane. E poi, pur comprendendo che a noi italiani piaccia spesso distinguerci “a prescindere”, mi chiedo se non debba insegnarci qualcosa il fatto che in molti paesi del mondo funzioni con buon successo un sistema simile. E non a caso, anche le Università dei Paesi di nuovo sviluppo come quelli asiatici stanno andando sulla stessa strada.
Anche il meccanismo di selezione per i docenti associati e ordinari con un sistema a due livelli dove si crea una lista nazionale di idonei dalla quale le Università possono poi scegliere i propri candidati mi pare una buona soluzione. Ovviamente, ogni sistema è aggirabile e perfettibile, ma quello ipotizzato dalla riforma riduce gli incentivi a creare alleanze con finalità non meritocratiche per la creazione della lista nazionale e consente alle singole Università di assumersi la responsabilità di scegliere i candidati che ritengano più adatti alla propria realtà e ai propri obiettivi.
Più in generale, l’enfasi data nella riforma proposta dal Ministro Gelmini al tema della valutazione delle Università merita di essere condivisa. Lo sviluppo di un sistema universitario capace di fare ricerca e docenza di qualità si fonda sulla definizione di obiettivi da raggiungere, sulla verifica puntuale del grado di raggiungimento di tali obiettivi, sulla molteplicità delle valutazioni, sulla condivisione della valutazione e dell’autovalutazione, sul confronto con altri sistemi universitari e con altre Università. Posto che i sistemi di valutazione, lungi dall’essere oggettivi, sono essi stessi frutto di “valutazioni” occorre dedicare tempo e attenzione alla formulazione di buoni sistemi di valutazione, ma cominciare ad affermare che “valutare si deve” mi pare una premessa necessaria per qualsiasi sforzo successivo.
Ancora, mi pare apprezzabile l’introduzione di un limite di 8 anni per la carica di Rettore. Le Università sono delle comunità educative, ma sono anche delle comunità professionali (o, se si preferisce, delle organizzazioni) dove è ragionevole che il vertice sia soggetto ad un ricambio fisiologico. Il permanere della stessa persona per un tempo troppo prolungato al vertice indebolisce la capacità innovativa dell’organizzazione e crea le premesse per problemi di successione. Nel contempo, un tempo troppo breve non consente di proporre progetti a validità differita che sono tipici di una Università. Il numero di anni identificato (otto) può essere un punto di equilibrio ragionevole.
Come tutte le riforme anche quella proposta dal Ministro Gelmini contiene elementi discutibili. Talvolta sembra privilegiare una logica molto verticistica e si addentra in dettagli (anche per esempio in tema di obblighi provenienza dei docenti da altre sedi) che forse potrebbero essere lasciati alla libera determinazione delle singole Università. Rimane poco chiaro tutto il tema del finanziamento della riforma, soprattutto perché se si dovesse confermare che parte delle risorse dovrebbero arrivare dallo scudo fiscale nasce la domanda su come si potrà fare il prossimo anno quando gli effetti dello scudo fiscale non ci saranno più. Su questo tema, mi sono convinto che sia necessario procedere ad una revisione del sistema delle tasse pagate dagli studenti, ma il tema merita ben altro spazio per essere approfondito. Forse anche gli interventi sul diritto allo studio previsti dalla riforma dovrebbero essere meglio tarati, tenendo conto anche delle competenze delle Regioni.
Pur con tutti questi limiti, in definitiva mi pare che il Ministro Gelmini abbia formulato una buona base di proposta che va “nel senso della storia” e che ora, nel lavoro parlamentare, può essere ulteriormente migliorata. È di buon auspicio leggere che alcuni protagonisti autorevoli del mondo universitario come il Rettore Decleva o il Senatore Rossi abbiano valutato positivamente la proposta e abbiano dichiarato il proprio impegno a renderne possibile l’attuazione.