Il contenuto de La sfida educativa, a cura del Comitato per il Progetto Culturale della Cei, può essere riassunto in tre espressioni. La prima è quella che gli dà il titolo e cioè la “sfida educativa” e segnala un problema, ma anche un’opportunità, una chance. L’altra espressione che ricorre spesso nei vari capitoli è “responsabilità educativa” e indica, a mio avviso, la fondamentale condizione per rispondere a questa sfida. Infine la terza espressione è “alleanza educativa” e indica il senso di una corresponsabilità dei diversi soggetti coinvolti nel rispondere a questa sfida, una corresponsabilità che deve diventare più matura e più consapevole. Cercherò di mettere in luce quelli che ritengo essere i punti principali che il rapporto-proposta sulla sfida educativa propone al lettore.
Educare significa “accompagnare” qualcuno a trovare la propria strada, la propria direzione. Perciò l’educazione si riferisce sempre, in modo esplicito o implicito, a un ideale dell’io, nasce da una ipotesi sull’io, da un’idea di personalità pienamente realizzata. Nel passato la società aderiva, perlopiù, ad una definizione unitaria e condivisa di questo ideale da perseguire nell’educazione che veniva “consegnato” alle generazioni successive senza grandi scosse e problemi. Ciò facilitava il compito di genitori, insegnanti ed educatori, ma li privava anche di una più elevata autocoscienza del loro ruolo e del loro compito.
Nella società di oggi, caratterizzata, come diceva Weber, dal “politeismo dei valori”, cioè il politeismo dei modelli ideali dell’essere e dell’agire, non c’è più una definizione unitaria su cui tutti concordino. Ciò costituisce una sfida, un rischio, ma anche una inedita opportunità, poiché la domanda su quale sia l’idea di “personalità compiuta” e di “vita buona” che voglio per mio figlio, per i miei allievi, per il mio amico, è una domanda a cui devo offrire una mia “personale” risposta, che non può essere elusa o definita da una formula prestabilita. Deve essere oggetto di una decisione personale.
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Educazione significa trasmettere ciò in cui credo, che vale per me, e che perciò credo possa valere anche per mio figlio, il mio allievo, il mio giovane apprendista. Questo atteggiamento è all’origine della “passione educativa”. Ma la comunicazione di ciò che è vero, giusto, stimabile per me, non può essere comunicato attraverso un discorso. Ciò che è veramente persuasivo è l’esempio. Per questo, l’educazione si realizza principalmente attraverso il paragone personale. Se riflettiamo un po’, è facile riconoscere che abbiamo appreso i valori che contano nella nostra vita vedendoli incarnati, esemplificati in persone che abbiamo amato e ammirato: i nostri genitori, i nostri insegnanti, i nostri amici. Poi, crescendo, abbiamo imparato a sottoporre questi valori ad un giudizio, li abbiamo provati, verificati nelle tante situazioni concrete della nostra vita e rielaborati criticamente.
Questo aspetto ha anche un grande significato nel rapporto con la “tradizione”, cioè il riconoscimento del valore delle radici della nostra storia e della nostra cultura di cui il Cristianesimo è parte integrante ed essenziale. La tradizione è come una lingua: se non viene parlata diventa una lingua morta, che non comunica più niente. Il valore che essa ci consegna, vive solo se è attualizzato, cioè reso reale e incontrabile in figure umane concrete.
L’educazione implica la reciprocità, quella condizione per cui chi educa e chi è educato stanno all’interno di una relazione che li comprende entrambi. Un primo esempio di ciò è il rapporto tra marito e moglie. Nella coppia affettiva e coniugale ci si educa reciprocamente, ci si aiuta a crescere nella propria umanità, ad accogliersi e ad accogliere l’altro anche con tutti i suoi limiti. Per questo, come si sottolinea nel capitolo dedicato alla famiglia, nell’educazione reciproca tra genitori sta la chiave della capacità e della responsabilità educativa nei confronti dei figli.
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Ma, anche dove la relazione educativa ha un carattere verticale (genitori-figli, docenti-allievi, etc.), la reciprocità – cioè l’amicizia – è un “sintomo” della sua autenticità. Infatti, l’ideale dell’io che muove l’educazione non può essere uno schema che qualcuno “cala” su qualcun altro, ma una costruzione comune che coinvolge entrambi i soggetti del rapporto educativo, pur nella distinzione dei ruoli e delle responsabilità. Giustamente nel rapporto-proposta si osserva che nell’educazione dell’altro c’è sempre anche una dimensione di auto-educazione, di educazione di sé.
L’educazione chiede una responsabilità, un impegno personale. Vorrei fare un semplice esempio. E’ facile per gli insegnanti cadere nella tentazione di concepire la valutazione scolastica come una operazione di routine in cui si applicano dei criteri standardizzati di valutazione della prestazione dello studente. Il problema è che in questa azione ci può e deve essere molto di più: quella “premura fondamentale” che accoglie il bisogno di riconoscimento dello studente, l’esigenza che gli altri che contano per lui, tra cui anche quell’insegnante, lo riconoscano come un “tu”, particolare, distinto, unico, e non lo considerino “uno qualsiasi”, membro anonimo di una categoria (uno studente).
Questa responsabilità ha infinite altre espressioni: le famiglie che accolgono bambini in affido o in adozione, i genitori e gli insegnanti che danno vita a forme associate di mutuo aiuto, che creano cooperative educative e scolastiche, gli imprenditori che sentono la responsabilità per i propri dipendenti e le loro famiglie. Questa vitalità e creatività, che chiamiamo sussidiarietà, ha generato e genera tante opere in campo economico, sociale ed educativo senza le quali il tessuto sociale inaridisce. Solo così credo diventi anche possibile un’alleanza educativa tra i diversi attori che la sfida educativa coinvolge: tra genitori, insegnanti, sacerdoti, operatori dei mass media e tra soggetti che pur muovendo da diverse visioni e prospettive culturali, in primis cattolici e laici, possono riconoscersi nelle “premure fondamentali” che sono alla base dell’educazione.