Nel generale clima di discussione che, negli ultimi mesi, ha investito il sistema scolastico e formativo, è tornata a far capolino sui giornali e nell’opinione pubblica l’idea di “corsi di filosofia”, proposti ai bambini fin dall’infanzia. La Francia sembra essere all’avanguardia, se è vero che stanno incontrando un certo successo gli “atelier filo” e le collane di libri per “Petits Platons”.
Di che si tratta? In buona sostanza, della diffusione di progetti didattici e formativi che declinano, in varie modalità, la proposta della philosophy for children, messa a punto dallo studioso americano Matthew Lipman negli anni Settanta. Essa mira ad avviare fin dalla tenera età il bambino al “filosofare”, cioè all’arte di pensare criticamente sé e il proprio rapporto con la realtà e con gli altri, in un contesto di relazioni sociali e intellettuali che vorrebbero promuovere, a partire dalla scuola, una riforma e un progresso della società tutta nella direzione di un’ideale “comunità di ricerca”.
Che cosa c’è all’origine di tali progetti ? Essenzialmente, una “filosofia dell’educazione” che affonda le proprie radici nel pragmatismo e nel cognitivismo del Novecento, in particolare nelle teorie dei loro più grandi maestri – Dewey e Piaget. Possiamo riassumerne così (mi si perdoni la semplificazione) i principi-cardine: la natura convenzionale della conoscenza; la concezione della mente umana come raffinato elaboratore di informazioni; i criteri e le metodologie del costruttivismo sociale e dell’ermeneutica come linee-guida del dialogo fra le generazioni; la fede nella comunicazione e nella ricerca come strade maestre della costruzione di una vera democrazia – intesa, sul versante sia intellettuale che politico, come processo continuo di ricostruzione critica dell’esperienza individuale e collettiva.
Fin qui il nucleo teorico e la profondità di campo, storico-culturale, della philosophy for children – sulla quale esiste una letteratura scientifica, cui ci si può rivolgere per eventuali approfondimenti. Ora due spunti di riflessione sulla pertinenza educativa di proposte di questo tipo, o simili.
Il primo viene dalla verifica della “portata” di cui sarebbe capace, secondo le tradizioni di pensiero ricordate, la nostra conoscenza. In accordo con la matrice deweyana, i progetti della philosophy for children muovono principalmente da due assunti di metodo, riassumibili nelle seguenti equivalenze: “conoscere” significa “pensare”, e “pensare” significa “ricercare”. Ora, però, siamo sicuri che questi due atti o momenti esauriscano l’intero range conoscitivo della ragione umana e rappresentino l’unico nucleo sorgivo del suo dinamismo? Non si danno anche altri suoi atti o dimensioni, altrettanto costitutivi, fecondi, ed espressivi della sua strutturale tensione a conoscere? E perciò, altrettanto degni d’esser posti a fondamento di un programma – anche scolastico – di educazione intellettuale?
Forse la nostra intelligenza ha uno spettro conoscitivo più ampio che il solo “pensare” e “ricercare” – flessioni, peraltro, nobilissime della ragione. Senza esser filosofo, ci è andato più vicino Alessandro Manzoni, in quell’inciso de I promessi sposi che vale un trattato di gnoseologia e di logica: “osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare”. Ecco una bella criteriologia per l’esercizio razionale di cui l’uomo ha bisogno fin dalla più tenera età (perché è vero: il peso del conformismo, delle convenzioni e del pregiudizio si fa sentire già da piccoli) e per un programma di educazione intellettuale equilibrato, che non corra il rischio di enfatizzare il ruolo del ragionamento o della dialettica, a scapito dell’importanza insostituibile da una parte dell’attenzione, dell’osservazione e dell’esplorazione del reale, dall’altra dell’ascolto delle civiltà e delle culture del passato, che ci parlano attraverso la tradizione. Rischio d’enfatizzazione, sia detto per inciso, tanto più deleterio e stravolgente nell’infanzia, se è vero, come hanno mostrato Piaget e Bruner, che, per svilupparsi, l’intelligenza ha bisogno del racconto, della rappresentazione e dell’azione, prima che del concetto logico-formale.
Il secondo spunto di ponderazione critica nasce dalla considerazione che, per quanto formalmente simili, la domanda del “perché” e il “pensare attraverso le parole” (cioè, secondo l’etimo, il “dialogare”) possono assumere forme e direzioni diverse sulla bocca e nella mente di un bambino e di un adulto, e condurre la loro conversazione a esiti anche molto differenti.
Nel bambino il domandare nasce di solito come mossa di ricerca di una spiegazione, davanti a cose o avvenimenti per lui ancora parzialmente “ignoti”: cioè senza causa evidente, né manifesta. Senza la comunicazione e il racconto, da parte dell’adulto, di un’evidenza mediata, “ragionata”, realmente percepita come ipotesi di spiegazione adeguata, il bambino continuerà inesorabilmente a chiedere. In lui il domandare – certo, con tutto il “realismo ingenuo” del caso; ma comunque “dall’interno” di un rapporto di fiducia verso l’adulto (al quale altrimenti non si rivolgerebbe) e con un’esigenza, un’istanza di verità che non ammette tradimento (chi abbia anche solo una volta deluso un bambino lo sa bene) – esprime la tensione al vero, propria e costitutiva della ragione comune a entrambi.
Come tale, perciò, dal punto di vista pedagogico, ogni domanda del bambino è una grazia per l’avvio del processo conoscitivo e del rapporto educativo. Come primissima “mossa” pedagogica, essa richiede che l’adulto prenda sul serio la provocazione di ricerca, espressa “dalla” e “nella” domanda: raccogliendo umilmente l’anticipo di verità, che urge in essa come indicazione di percorso (cioè della direzione in cui l’intelligenza è provocata a muoversi), e valorizzando ogni altro segno proveniente dal contesto in cui la domanda si è accesa, o dalla realtà che l’ha suscitata.
Proprio qui si apre la questione più delicata – che, ovviamente, vale non solo per la “filosofia per bambini”, ma anche per qualsiasi altro insegnamento o pratica formativa; e anche, a pensarci bene, per ogni papà e mamma. Proprio perché sviluppato cognitivamente (cioè attrezzato di competenze anche riflessive, critiche e metodologiche) ed eticamente (perciò maggiormente dotato di potere e di progettualità), l’adulto può sì raccogliere la sfida della domanda del bambino, e accompagnarlo nella ricerca della verità. Allora anch’egli diventerà “filosofo”, quand’anche non insegni filosofia, ma italiano, aritmetica, musica, storia (e così via), oppure svolga una qualsiasi altra (anche umile) occupazione.
Ma le cose possono andare diversamente. Il nostro adulto potrebbe eludere, in un modo o nell’altro, la domanda del bambino. Potrebbe darle una risposta di pura convenienza. Potrebbe anche cercare di disinnescare il suo potenziale veritativo, cercando di farla apparire come qualcosa di “relativo” (all’epoca storica, al contesto culturale, al ceto sociale, e ad altro ancora) o di “funzionale” (alla realizzazione dell’interesse individuale o collettivo, al progresso della società, all’affermazione di un’idea politica, alla crescita del “sapere critico”, e così via).
Ora, quando si rapporta ai propri genitori e, dentro e fuori la scuola, agli adulti (insegnanti e non), un preadolescente o un adolescente può contare sulla consapevolezza di sé e del vero, man mano maturata in lui, per riconoscere in questo o in quell’adulto un “interlocutore credibile” per la propria educazione, e stabilire così liberamente, su questa base, i necessari legami e le opportune difese. Certo, egli sarà tanto più fortunato, quanti più “Socrate” incontrerà (mi sembra però che figure di questa levatura intellettuale e morale siano oggi abbastanza rare, un po’ in tutti i campi…). Ma se si tratta di un bambino della scuola dell’infanzia o primaria?
Come fa ad esercitare la libertà della ricerca intellettuale e dell’esercizio della discepolanza, se le domande da porsi, i concetti da analizzare e da discutere, i metodi di pensiero li hanno predisposti e congegnati altri per lui? Se il suo rapporto con la realtà viene “filtrato a priori” da uno schema adulto (magari molto selettivo o decisamente orientato), senza che egli abbia la possibilità di vagliarlo criticamente? Per l’evidente asimmetria, il bambino non può competere alla pari con l’insegnante che conduce il gioco; né ha la possibilità di liberarsene, nel momento in cui avesse il sentore che, nella sua ricerca della verità, questi non è stato leale fino in fondo con l’esigenza di significato, ma si è fermato un po’ prima – presso le colonne d’Ercole dello scetticismo, del relativismo, del “politicamente corretto”.
Se non si prende veramente sul serio e fino in fondo il motto che contrassegnò la fondazione dell’Istituto J. J. Rousseau a Ginevra, nel 1912 (Discat a puero magister: il maestro impari dal fanciullo), in ogni forma d’insegnamento e di educazione si correrà sempre, anche con le migliori, o “più filosofiche” buone intenzioni, il rischio dell’autoritarismo (anche nella forma più blanda e larvata del paternalismo illuminato). A meno di non prendere altrettanto sul serio (e contro la sua stessa opzione immanentista) l’acuta intuizione che fece dire a Dewey, in Democrazia ed educazione, che “ogni ricerca è nativa, originaria, per colui che la effettua, anche se il resto del mondo è già sicuro di quello che egli sta ancora cercando”. Cioè, anche se la generazione adulta fosse talmente sicura di sé, da dimenticare, o da aver dimenticato, che “tutti i grandi sono stati bambini una volta”, e che “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”.