Una sentenza cristallina (mi pare) del Consiglio di Stato ridà dignità all’insegnante di religione cattolica della scuola pubblica, recentemente declassato a “quasi” insegnante, privato della possibilità di partecipare “a pieno titolo” agli scrutini scolastici e di attribuire crediti formativi agli studenti “avvalentisi”, dalla decisione del TAR Lazio dell’agosto dell’anno scorso. Quest’ultima è stata infatti ora annullata dai giudici di Palazzo Spada. Sembra così interrompersi – con l’autorevolezza dell’Autorità che ha deciso la questione – quel trend che portava a ritenere l’insegnamento della religione cattolica non un insegnamento vero e proprio.
Essendo facoltativo, esso non doveva determinare disparità di trattamento nei confronti degli studenti non avvalentisi con l’attribuzione di punteggi di sorta, né poteva essere oggetto di valutazione sul piano del profitto scolastico, avendo un rilievo puramente “morale ed etico” e, come tale, abbracciando “l’intimo profondo della persona che vi aderisce”. Alla fine, vi era quasi l’impressione che il povero insegnante di religione dovesse quasi scusarsi per la sua presenza in classe e dovesse sì insegnare, ma non troppo e non si sa bene cosa, per non “alterare” le coscienze di nessuno e per non ledere le altre religiosità interiori (o scelte di non religiosità).
Il Consiglio di Stato, con la sentenza 2749 del 7 maggio 2010 restituisce pieno diritto di esistenza a detto insegnamento, presente nel panorama scolastico italiano, grazie all’art. 9, comma 2, della L. 121/1985, che apporta modifiche al Concordato lateranense e che afferma espressamente che «continua ad essere assicurato l’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica», per il suo valore storico-culturale, così come «impartito in conformità alla dottrina della Chiesa».
Le sentenze della Corte costituzionale hanno più volte confermato la legittimità dell’ora di religione (specie con la pronuncia 203 del 1989 e 13 del 1991). Anche dopo l’abolizione della religione cattolica quale sola religione di Stato, quest’ultimo deve assicurarne l’insegnamento. Esso è facoltativo nel senso che soltanto l’esercizio del diritto di avvalersene crea l’obbligo scolastico di frequentarlo. Una volta verificatasi tale condizione, detto insegnamento è un insegnamento scolastico a tutti gli effetti, soggetto a tutte le regole proprie di ogni insegnamento, sia didattiche che valutative, senza alcuna limitazione, che sarebbe – questa sì – discriminante rispetto agli studenti avvalentisi. In sostanza, se è legittima la presenza dell’insegnante di religione cattolica nella scuola pubblica, allora la sua attività educativa e valutativa deve essere quella di tutti gli altri insegnanti. Un insegnante “intero”, non dimezzato. Altrimenti è un’altra cosa.
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Queste sono le valutazioni ribadite dal Consiglio di Stato, il quale muove sulla base di tre step chiarissimi. Il primo: dalle norme concordatarie nasce “l’obbligo scolastico” di seguire l’insegnamento della religione, una volta che si sia scelto di avvalersene, ed «è allora ragionevole che il titolare di quell’insegnamento (a quel punto divenuto obbligatorio) possa partecipare alla valutazione sull’adempimento dell’obbligo scolastico». Due: non esiste alcun condizionamento dei non avvalentisi. «Una scelta (di non seguire l’insegnamento) legata a valori così profondi non può essere condizionata da valutazioni di stampo più marcatamente utilitaristico, legate al fatto che optando per l’insegnamento della religione si potrebbe avere un vantaggio (peraltro eventuale e di minima portata) in termini di valutazione di rendimento scolastico».
Tre: non vi è neanche alcuna discriminazione a carico dei non avvalentisi. Essi hanno infatti le stesse possibilità di raggiungere il massimo punteggio in sede di attribuzione del credito scolastico (che risente, in primo luogo, della media dei voti riportati dallo studente, e poi della condotta e delle attività svolte dallo studente nel corso dell’anno), senza essere in alcun modo pregiudicato in conseguenza della scelta fatta nell’esercizio della libertà religiosa. Inoltre, il presunto vantaggio di chi segue l’ora di religione «è del tutto eventuale», anche perché il giudizio dell’insegnante di religione potrebbe anche essere negativo.
In altri termini, «la libertà religiosa dei non avvalentisi non può arrivare a neutralizzare la scelta di chi, nell’esercizio della stessa libertà religiosa, ha scelto di seguire quell’insegnamento e che, dunque, ha il diritto-dovere di frequentarlo e di essere valutato per l’interesse e il profitto dimostrato. Diversamente, si produrrebbe una discriminazione alla rovescia». Soprattutto, si ritiene che il Consiglio di Stato abbia in qualche modo ripristinato la valenza del fenomeno religioso come valore culturale e storico, oltre che di fede personale, riannodando le fila della scissione tra sfera materiale e spirituale, tra corpo e anima, tra terra e cielo, prodotta da una concezione solo intimistica della sfera religiosa che deve annullarsi esternamente, perché una qualunque manifestazione esterna – dalla sfera spirituale alla sfera materiale umana – potrebbe “alterare” il precario equilibrio di coscienze religiose (o atee) diverse coabitanti assieme, ed il ruolo di “gendarme” imparziale dello Stato non potrebbe permetterlo.
Ma come allora comprendere tutto quanto di materiale (arte, cultura, opere, attività) ci ha lasciato la fede cattolica? Forse che I Promessi Sposi sarebbero pensabili costretti nella sola sfera della coscienza del Manzoni? E la basilica di San Pietro? E la Pietà di Michelangelo? Non è invece importante che lo Stato si interessi e offra come servizio alla società civile l’opportunità di conoscere quella fede cattolica che ha prodotto tutto questo, mediante un insegnamento scolastico che, essendo opzionale e quindi scelto, non viola alcuna altra libertà di coscienza?
(di Stefano Spinelli)