SCUOLA/ Doninelli: se la bellezza di un testo conta più della teoria

- Luca Doninelli

Dalla posizione teorica dello strutturalismo, all’afflato esistenziale della critica americana, in un testo, dice LUCA DONINELLI, conta molto di più la bellezza che lo rende “necessario”

scuola_biblioteca_libriR400 Foto: Imagoeconomica

Parlando di letteratura e di critica letteraria (ammesso che esista ancora) occorre vietarsi, se possibile, ogni virata verso la stupidità, che come sappiamo si nutre di partiti presi.

Credo di essere stato il primo recensore italiano de La letteratura in pericolo di Tzvetan Todorov, dove il celebre linguista denuncia i danni che una posizione teorica come quella strutturalista – di cui lui stesso fece parte tanti anni fa – stava infliggendo alla letteratura francese. Non sono mai stato un grande estimatore di Todorov, né di quello linguistico-letterario degli anni Settanta né del Todorov filosofo moralista di qualche anno più tardi. Però La letteratura in pericolo mi piacque, anche se leggendolo si sente il freno a mano tirato di chi, mentre denuncia, cerca un’onorevole via d’uscita. In ogni caso, la mia recensione fu molto favorevole.

Il merito di quel libretto è stato senza dubbio quello di avviare una discussione su un metodo d’insegnamento della letteratura che aveva avuto un grande successo soprattutto negli anni Ottanta e Novanta, e i cui effetti negativi si possono riscontrare ancora oggi nella difficoltà delle generazioni giovani ad allacciare rapporti saldi con la tradizione letteraria.

Il metodo strutturalista, propagato da allievi di quella scuola insediatisi poi in questa o quella cattedra universitaria, infestò manuali e antologie scolastiche (da Il materiale e l’immaginario in giù) trasformando la letteratura in qualcosa di complicato e senza alcun riferimento con la realtà viva del lettore. Ricordo ancora come un incubo i questionari posti al termine dei brani nelle antologie dei miei figli: io, che oltretutto avevo alle spalle una formazione legata allo strutturalismo, non sarei riuscito a rispondere a una sola di quelle domande. Finché, un giorno, vidi uno di quei questionari compilato da mia figlia, e mi resi conto (con sollievo per me stesso e con orrore per mia figlia) che quelle domande incomprensibili erano, semplicemente, domande stupide, e questa era la ragione per cui non sapevo rispondere.

L’impressione che mi rimane è che leggere i testi a quel modo fosse come cercare di capire un affresco della Sistina stando a un centimetro dal dipinto: impossibile capire.

Tuttavia sarebbe da sciocchi – di qui il mònito iniziale – dare la colpa a un metodo di analisi, perché i metodi non hanno nessuna colpa: la colpa è nostra, è dell’insegnante che impone il metodo senza domandarsi se sia o meno adeguato all’oggetto. E l’oggetto, a scuola, è ben complicato, perché non è soltanto il racconto di Calvino o la pagina di Proust, ma è il racconto di Calvino e la pagina di Proust nel contesto di quella classe lì, con quelle persone lì, con quei problemi lì.

Gli scrittori americani della mia generazione (Franzen, Foster Wallace ecc.) se la sono presa spesso con Roland Barthes e Michel Foucault – i padri del metodo strutturalista – perché nei loro scritti letterari avevano dichiarato l’autore come una funzione letteraria da eliminare. Il testo era, per l’uno come per l’altro, una sorta di campo aperto, luogo di conflitti, dove i soggetti parlanti erano spesso più d’uno.

Foucault sosteneva che il soggetto parlante cambia (anche se a parlare è lo stesso individuo) a seconda della posizione assunta nel testo: un matematico che spieghi in un manuale una propria scoperta, per esempio, rappresenta almeno due soggetti parlanti distinti (il matematico puro da un lato e, dall’altro, il divulgatore che spiega ciò che il matematico ha fatto) cui si aggiunge l’individuo, che porta lo stesso nome dei primi due e vive nella stessa casa, che firma il contratto con la casa editrice, ecc.

I discorsi di questi grandi pensatori sono tutt’altro che campati per aria. Io leggo ancora Barthes e Foucault con grande profitto personale. Barthes e Foucault credevano nella forza della teoria, e ritenevano che la teoria fosse un modo “per non essere troppo governati” (Foucault).

Foster Wallace, però, contrappone ai loro discorsi la persuasione che la scrittura rappresenti la forma compiuta di uno sforzo – quello dello scrittore, dell’uomo/scrittore – di uscire dal proprio stato di solitudine per cercare di mettersi in comunicazione con altri esseri umani. La letteratura è come una mano tutta tesa nella speranza di incontrare un’altra mano, di poterla finalmente stringere.

Questo afflato esistenziale metterebbe voglia di dare immediatamente ragione a questi americani e torto agli strutturalisti. Ma, così come sarebbe sbagliato ignorare le osservazioni dei primi, sarebbe ancora più sbagliato cedere a questa tentazione. E’ proprio vero che le cose stanno come dicono gli americani? La scrittura è davvero un atto solitario mediante il quale dovremmo uscire dalla solitudine? Può essere, certo, ma in che senso le cose devono stare solo così? Perché la letteratura non potrebbe essere, fin dall’inizio, un’azione corale?

Qualunque scrittore serio, che comprende la necessità dell’esattezza, sa che raccontare e descrivere sono due attività che tendono all’oggettività. Una cosa detta con precisione accede a un livello ontologico diverso: lo scrittore, quando raggiunge l’esattezza, sente che il peso della propria soggettività si attenua, la pagina si alleggerisce dell’ingombro dell’io. In quel momento, che tende all’impersonalità, chi scrive comincia a capire che essere autore è qualcosa di diverso da quello che aveva immaginato. Non si sente più il creatore di un capriccio, ma lo scopritore di qualcosa che c’era sempre stato.

Il testo, in altre parole, è solo in parte la creatura del suo autore. Anzi, poiché è il testo a fare grande l’autore, possiamo dire che più il testo è oggettivo, meno reca il marchio gratuito dell’autore, più l’autore cresce.

Ma su questi discorsi ci si potrebbe dilungare senza fine. Quello che volevo dire è che è difficile determinare cosa sia un testo a partire dalle semplici intenzioni programmatiche del suo autore. Lo stesso Foster Wallace scrisse Infinite Jest come un grido di allarme, o se vogliamo come un desolato compianto, ai limiti dell’afasia, sull’America: ciò non toglie che Infinite Jest sia quella cosa lì, e che altri testi scritti magari con la stessa intenzione siano, nondimeno, qualcosa di completamente diverso.

Un testo è come un edificio: deve stare in piedi. E poi deve rendere veramente bella la città dove sorge. E’ la sua bellezza a parlarci della necessità della sua edificazione. Questo viene, a mio parere un passo prima rispetto alla discussione sui pro e contro della critica testuale.

Personalmente, credo che qualsiasi metodo critico, usato come se la verità del testo uscisse magicamente dalla sua applicazione, sia una perfetta scemenza. Quando il dito indica la luna, diceva un vecchio proverbio l’imbecille guarda il dito. Il dito è il metodo, la luna è l’oggetto. La verità della critica non sta nel metodo ma nella domanda con la quale noi lo usiamo.

Tutti i metodi, di per sé, sono utili, dal momento che nascono dal lavoro duro di uomini che si sono interrogati sulla consistenza del mondo, sulla natura umana, sul senso della bellezza e sul valore della letteratura. Questi uomini hanno commesso ciascuno i propri errori, da quelli inevitabili dovuti alla mentalità del tempo a quelli evitabili dovuti a eccessi di ideologia o a partiti presi. Ma sembra che siamo condannati a viverci, in mezzo agli errori: prima di tutto i nostri.

Tutti i metodi hanno del buono, sono utili: quello testuale come quello psicologico, quello sociologico come quello marxista, quello idealista come quello psicoanalitico, quello linguistico come quello antropologico, quello filologico come quello storicista. Il problema siamo noi, non i metodi. Quello che preoccupa, in altre parole, è che il ruolo di maestri dei giovani sia stato assunto per tanto tempo da persone del tutto ignare della drammaticità del proprio compito.

Non credo che la letteratura sia in pericolo: noi non abbiamo la più pallida idea di quello che faranno le future generazioni, li immaginiamo tutti intrappolati in facebook, e invece già qualcosa di nuovo sta nascendo. I figli dei poco di buono sono spesso persone eccellenti, così come persone eccellenti hanno figli disgraziati. Chissà che letteratura nascerà, da tutto questo.

No, non la letteratura è in pericolo. E nemmeno la persona umana. Non a breve, perlomeno. Prima della persona e della letteratura salterà sicuramente il sistema educativo, a cominciare dalla scuola e dall’università. E’ un film che abbiamo già visto, quando finì l’Impero romano. Saltarono le istituzioni, saltarono le scuole. Ma non saltò l’uomo, e nemmeno la letteratura. E gli amanuensi che ricopiarono i testi della cultura dell’Occidente credevano nel valore della testualità. Che fossero strutturalisti ante-litteram?





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