BEIRUT – Supermarket pieni di zaini, quaderni di tutte le forme e Bic colorate per ogni tasca; cartelli stradali che gareggiano per offrire il miglior pc scolastico per alcune centinaia di dollari e la faccia sorridente di un bambino che lo tiene orgogliosamente in mano. Si potrebbe dire che non ci sono differenze con i paesi occidentali più avanzati, ma nel Paese dei Cedri le cose vanno poi diversamente.
In Libano non si può parlare di un sistema scuola, si deve invece distinguere tra scuole private e pubbliche e dunque tra chi un giorno dirigerà qualche multinazionale in giro per il mondo (come il direttore generale di Lancia-Chrysler nominato da Marchionne nell’estate scorsa) e chi invece a malapena firmerà con mano incerta un assegno.
La scuola pubblica libanese è un ferrovecchio sempre più arrugginito fatto di insegnanti mal pagati (e quindi quasi tutti distratti da un secondo lavoro) e di aule disadorne e abbandonate: è praticamente gratuita ma è frequentata solo da chi davvero non ha alternative. Tutti, ma proprio tutti i genitori con bambini in età scolare vivono alla ricerca della scuola privata più abbordabile ai loro stipendi.
Storicamente le prime scuole private libanesi vennero istituite da congregazioni religiose cristiane e, nel Paese del multiconfessionalismo praticato, questo significava che anche le élites musulmane studiavano dai preti e dalle suore. Oggi ci sono ottime scuole sunnite, sciite, ortodosse, eccetera. Il grande discrimine che le unisce tutte sono i soldi: da 500/600 dollari all’anno di iscrizione a 10/15mila (lo stipendio medio libanese si aggira sui 600 al mese). Ai livelli più alti, strutturati con sistemi d’insegnamento americani o francesi, il passaggio universitario non è complicato e molti dei fortunati finiscono le loro carriere accademiche con dottorati in Europa o negli Stati Uniti.
Ma la sfida del Libano di oggi si gioca invece per quelli che non possono permettersi investimenti di centinaia di migliaia di dollari per la “vita scolastica” dei loro figli: e sono la maggioranza. Se ne sono accorti tutti: dal nuovo governo libanese ai finanziatori, Unione europea in testa.
Era facile capirlo: Avsi, presente in Libano dal 1996 e con un’attenzione particolare all’educazione è in prima linea nella “battaglia educativa”. Il progetto di sostegno a distanza di 1.500 bambini e ragazzi libanesi ha come cardine e faro la loro educazione.
Scelta che non passa solo attraverso il contributo a integrare le rette scolastiche – o ad alleviare i debiti che le famiglie contraggono pur di garantire un certo livello ai loro figli -, ma anche a mettere in moto un meccanismo di presa di coscienza del valore “educazione”. Ecco perché la formazione di centinaia di insegnanti di scuole pubbliche o l’equipaggiamento di laboratori e classi diventa una sfida a lungo termine che non può non essere presa in considerazione.
L’anno scorso un direttore di una scuola del Sud del Libano pianse davanti a tutti raccontando di come per i primi 30 anni di insegnamento avesse ritenuto il bastone il miglior strumento pedagogico a disposizione e ora, durante la sua prima formazione, gli era sorto un dubbio circa l’efficacia del suo metodo. Storie magnifiche dal volto umano raccontate nel docufilm “Sur les chemins de la Plaine”, diretto da Michèle Tyan e finanziato dalla Cooperazione italiana allo sviluppo del Ministero degli Affari esteri, che ha vinto un premio alla recente 28° edizione di Agrofilm, il festival cinematografico di Nitra, nella Repubblica Slovacca, organizzato anche dalla Fao. Una pellicola delicata che con grazia e rispetto racconta una pace possibile nel Libano al confine con Israele, nella Piana di Marjayoun, dove i bambini del sostegno a distanza, da beneficiari, sono gli attori protagonisti.
Ma queste storie positive non possono bastare, la scommessa sulla scuola pubblica libanese è la base per un Paese che corre velocissimo in termini di Pil, ma esclude sempre di più chi non ha gli strumenti per competere. “L’educazione è il nostro primo dovere di dirigenti di questo Paese” ripete sovente un prete oggi alla testa delle scuole private cattoliche, e non investire anche nel pubblico vuol dire lasciar fuori dalla porta del conoscere migliaia di giovani che hanno invece fame di sapere.
Perché quest’ultimo aspetto è forse una delle differenze più grandi tra molti studenti italiani e i loro omologhi del Medio oriente: “Qui si studia ancora per il gusto di imparare, con la consapevolezza del sacrificio che i genitori fanno per permettercelo” dice con orgoglio e tristezza Claude, un giovanotto appena rientrato dall’Europa, con il suo dottorato di ricerca in tasca e tante buone speranze.
(Marco Perini, responsabile Avsi in Libano)