Il compito dell’università? Ritrovare la sua vocazione originaria, contenuta in quella parola – universitas – che la modernità ha frantumato in una specializzazione estrema di saperi così spesso privi, oggi, di un’ispirazione autenticamente umana. Cita l’Ex Corde Ecclesiae di Giovanni Paolo II, Lorenzo Ornaghi, rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, per dire che non si può separare il sapere dal bene. E la dimensione religiosa dell’uomo – il senso religioso – indica la strada. Ornaghi ne parla oggi al Meeting di Rimini, insieme a John Garvey (Catholic University of America) e a Moshe Kaveh (Bar-Ilan University di Tel Aviv), in un incontro moderato da Joseph Weiler, docente di legge nella New York University.
Senso religioso e università: professor Ornaghi, non è un accostamento strano?
L’accostamento non è strano, anzi, è fruttuoso per la crescita stessa dell’università, in un momento non facile né per l’università né per la conoscenza in generale. Il titolo fa l’ipotesi che la radice dell’università stia «dentro» l’uomo: senso religioso vorrebbe dire che la sua coscienza è rapporto con la verità, con l’infinito. La radice è la parte nascosta, ma è anche la più importante, perché se le radici sono buone poi l’albero è rigoglioso.
Suggerisce anche che solo questa apertura della ragione possa legittimare l’«impresa» del sapere, cioè l’università.
Ritrovare oggi questa radice significa dare alle università nuovo respiro ma anche riportarle alla loro vocazione originaria. L’università come forma di conoscenza chiamata ad essere universitas. L’etimo ci porta all’opposto dell’iper-specializzazione così frequente ai giorni nostri. In questo senso le università di oggi, quelle che vengono chiamate «università di tendenza», quindi anche le università cattoliche, dispongono di un plusvalore autentico, che – come disse Giovanni Paolo II nella Ex Corde Ecclesiae – è «la continua indagine della verità mediante la ricerca, la conservazione e la comunicazione del sapere per il bene della società».
Secondo lei oggi l’università è in crisi?
È un fatto che le nuove sfide pongono l’università di fronte a problemi non solo organizzativi, ma riguardanti il loro stesso significato come istituzioni culturali. Il vero compito al quale una università non può sottrarsi è quello di tenere più stretto possibile il nesso tra la parte formativa e la parte della ricerca. Sotto questo profilo la radice umana dell’università, quella che nel titolo dell’incontro è il senso religioso, è la sola che può dare vera unitarietà – per recuperare un termine antico, ma ancora valido -, e di conseguenza organicità ai nessi reciproci delle diverse forme di sapere.
Ma da che cosa dipende secondo lei la crisi di questa istituzione?
Più che di crisi parlerei di travaglio, che come tale contiene la possibilità di nuovi sviluppi in senso positivo e non solo l’eventualità negativa di un tracollo. Esso dipende da moltissimi fattori, esterni e interni. Le università dell’occidente nascono quando si forma il sistema politico culturale dell’Europa medioevale e poi moderna. Il travaglio di oggi viene dal fatto che siamo alle prese con un nuovo sistema politico e culturale che non è più soltanto quello dell’Europa che conosciamo. In questo quadro, stiamo scontando le onde ultime di quel lungo processo di frammentazione del sapere cui ha condotto la stessa università moderna. Il suo principio è che il massimo di specializzazione e di autonomia della conoscenza è ciò che rende la conoscenza più alta.
Che cosa si deve fare?
Si tratta adesso non di ricostruire un’artificiosa unità del sapere, ma di trovare ciò che davvero «lega» in profondità le diverse forme di conoscenza. Oggi la radice va cercata nell’antropologia: nell’unità della persona che studia e ricerca la verità delle cose, nel suo «senso religioso» appunto.
Lei è rettore di una università cattolica. Il pregiudizio scientista sulla neutralità della conoscenza e la sua incompatibilità con la fede, ieri così forte, oggi è caduto.
Se vuole dire che la vita è divenuta più facile, non sono del tutto d’accordo. È vero che di quel pregiudizio ottocentesco rimangono soltanto alcuni scampoli, però attenzione, perché c’è una derivazione diretta di quella concezione che è tuttora presente in ciò che chiamiamo sbrigativamente relativismo ma che potremmo meglio chiamare politeismo dei valori, e il suo pericolo non è inferiore a quello dell’antico pregiudizio verso un orientamento cattolico incompatibile per definizione con il sapere scientifico. Per esso l’identità cattolica è un valore come un altro, che nulla aggiunge né toglie…
Quali risposte deve elaborare una istituzione che voglia definirsi «cattolica»?
Tornerei alla parola «vocazione». Essere chiamati vuol dire cercare di guardare il futuro sulla base della propria storia. Le risposte concrete vanno elaborate sulla base di questo presupposto fondamentale. Vocazione è far vedere che la storia che portiamo, il modo in cui guardiamo il futuro è più importante della produzione di nuove forme di conoscenza che non sono portatrici di affermazioni forti, positive, sulla persona e il bene comune.
Lei attribuisce alla sua università una particolare «missione civile» in relazione alla storia italiana?
Semplificando, direi che la missione civile è quella di anticipare i tempi, capire che cosa il domani richiede rispetto al presente. Agostino Gemelli ha giocato a suo tempo su due fronti principali: quello di una cultura che non fosse succube delle altre forme culturali – nel caso, di quel pregiudizio che si diceva; e quello della costruzione di una classe dirigente pensata con lo sguardo rivolto ad un domani prevedibilmente diverso rispetto al presente. Si può lavorare per un generico e astratto bene comune senza che questo chieda un prezzo nella sfera della coerenza ideale ai propri valori?
Dunque una università non deve fornire solo conoscenze ma anche una virtù?
Se non lo facesse verrebbe meno alla sua finalità educativa. Come dicevo, le «università di tendenza» sono quelle più simili ai prototipi di università. Se il momento educativo diventasse secondario saremmo dentro ad altre forme di professionalizzazione.
Si parla di modello universitario europeo, britannico, americano, asiatico… Cosa pensa quando legge le classifiche delle «migliori università» del mondo?
Naturalmente le guardo tutte, le comparo, senza perdere di vista i criteri classificatori. Credo che siano uno strumento forse utile per migliorare, ma non vanno certamente prese in modo unilaterale. Occorre grande prudenza… Possiamo ispirarci ad un modello, ma occorre farlo dentro una visione culturale. È questa che dà forma al modello «reale» che costruiamo giorno per giorno. Invece di un modello dato cui sarebbe bello approssimarci, preferisco quello contenuto nel nostro patrimonio storico e ideale, cioè nella nostra tradizione.
Lei ha avuto modo di incontrare diverse generazioni di studenti. La frammentarietà del sapere e, per riprendere il suo termine, il politeismo dei valori come hanno cambiato le ultime generazioni?
Hanno reso più difficile cogliere tutto ciò che la ragione in qualche modo segna come elemento fondamentale di unitarietà nel vivere quotidiano. L’attitudine al consumo, a vivere nell’istante, al pensiero effimero hanno reso a tutti più difficile distinguere ciò che conta, ciò che dura, da ciò che passa. Questo mi pare uno dei primi compiti che devono darsi oggi gli educatori.
Non si è mai smesso di parlare di riforme. Qual è la riforma che serve di più oggi all’università?
Le vere riforme sembrano sempre impossibili, ma con Albert Hirschman sono convinto che «in ogni condizione c’è sempre una riforma possibile». La riforma di cui ci sarebbe più bisogno? per un rettore, la possibilità di scegliere i docenti ritenuti più idonei ad essere maestri ed educatori dei giovani.
(Federico Ferraù)