La consultazione pubblica sul valore legale del titolo di studio è cominciata, e secondo dati del Miur, riportati ieri dal Corriere della Sera, avrebbe già fatto segnare più di 20mila partecipazioni. Il tema è difficile, se ne parla in Italia da 50 anni, almeno da quando Luigi Einaudi, in quella che Sabino Cassese ha chiamato la«filippica» del padre costituente, rivolse i suoi strali contro quella parificazione artificiosa tra riconoscimento della validità di un titolo di studio da parte dello Stato, e il valore «reale» agli occhi del mercato. Infatti, tra la medesima laurea conseguita presso atenei diversi, come tutti sanno, può esserci un abisso. Per poter accedere ad un concorso pubblico, però, i due titoli pari sono. Potere sovrano del famoso «pezzo di carta».
Che affrontare il dilemma non sia facile, lo sanno anche al ministero di Francesco Profumo. Per inquadrarlo si sono affidati al Servizio studi del Senato della Repubblica, che nel 2011 così ha definito il nodo «valore legale»: «un istituto giuridico che va “desunto dal complesso di disposizioni che ricollegano un qualche effetto al conseguimento di un certo titolo scolastico o accademico”». Detto questo, cari cittadini – sembrano dire al Miur – armatevi di codice fiscale, rispondete alle domande e dite la vostra.
lsussidiario.net ne ha parlato con Andrea Ichino, economista, autore con Daniele Terlizzese (Eief) di una proposta di «autofinanziamento» dell’università che affronta anche – ridimensionandolo – il problema del valore del titolo. Tutto si tiene, dunque. Ma partiamo dalla consultazione. «Non so perché il governo abbia scelto questa strada» dice Ichino. «Il tema è ostico, nebuloso: si pensa che eliminare il valore legale voglia dire rinunciare ad ogni forma di accreditamento: non è così. Non è vero che abolendo il valore legale, chi ha fatto architettura può improvvisarsi dentista. Questa è disinformazione».
Professore, lei è favorevole all’abolizione del valore legale del titolo. Nello stesso tempo ha elaborato un’ipotesi di riforma del sistema universitario che fa leva sui prestiti agli studenti. Perché?
La nostra proposta mira a mettere gli studenti nelle condizioni di scegliere: cosa che adesso possono fare in teoria, ma, in pratica, solo con molte difficoltà e costi elevati . E questo per due motivi: uno relativo alla domanda, l’altro relativo all’offerta. Il valore legale che cosa fa? Attesta che una laurea conseguita a Catanzaro equivale a quella ottenuta a Venezia piuttosto che a Torino. Se questo fosse vero, che motivo ci sarebbe per scegliere tra università diverse?
Sappiamo bene che quelle lauree non si equivalgono.
Certo. Infatti, opzioni identiche vanificano la necessità e i benefici di una scelta. Ma se gli studenti sono indotti dallo Stato a pensare che siano identiche, non hanno incentivo a scegliere e quindi non mettono nemmeno in moto quella pressione concorrenziale che dovrebbe spingere le università a miglorarsi. E questo va soprattutto a danno delle famiglie meno abbienti, i cui figli sono illusi dallo Stato riguardo alla reale qualità dei titoli che hanno conseguito. Da questo punto di vista, meglio consentire alle università di differenziarsi nell’offerta formativa, in piena autonomia e con la possibilità di aumentare le tasse universitarie per finanziarsi. E, al tempo stesso, offrire agli studenti prestiti condizionati al reddito (attenzione: non prestiti tradizionali, ma “borse di studio restituibili”, si vedano i dettagli nella nostra proposta) che consentano loro di scegliere l’università che ritengono migliore. Questa combinazione di proposte creerebbe le condizioni per un’autentica possibilità di scelta.
Ma il valore legale del titolo che cosa c’entra?
C’entra eccome, perché lo Stato da un lato cerca di assicurare un’impossibile uguaglianza degli atenei, e dall’altro induce gli studenti, soprattutto quelli meno abbienti, a pensare che questa uguaglianza esista davvero. Questa situazione genera un circolo perverso che non stimola le università a migliorarsi al servizio degli studenti e non stimola gli studenti a scegliere premiando le università migliori e punendo quelle peggiori.
Andiamo a vedere dal lato dell’offerta. Di fatto esistono lauree di serie A e lauree di serie B. Che cosa non ha funzionato?
È vero quando si dice che non c’è una legge precisa che istituisca il valore legale de titolo di studio. Ma esiste un insieme di norme e regolamenti con ricadute nella contrattazione aziendale e nelle norme consuetudinarie, che portano gli italiani a pensare che i titoli di studio non solo abbiano lo stesso valore, ma che anche debbano averlo. Che una maturità a Palermo debba valere lo stesso che una maturità a Milano; e perfino che la maturità ottenuta nella sezione A del liceo tal dei tali debba valere come quella della sezione B del medesimo liceo.
«Debba», lei dice. Perché?
Perché gli italiani si sono convinti che lo Stato, in una visione a mio avviso un po’ distorta delle pari opportunità, dovrebbe garantire che i titoli abbiano per tutti lo stesso valore indipendentemente da dove sono stati conseguiti. E questo come ho detto è non solo impossibile, ma anche dannoso per il sistema, perché riduce la concorrenza. E a ben guardare, è un po’ anche una truffa da parte dello Stato ai danni degli studenti e degli utenti della pubblica amministrazione, che è costretta ad assumere senza badare alle differenze tra i titoli.
Lei ha parlato di contrattazione aziendale, ma il privato sa benissimo quanto valgono le lauree. E infatti la consultazione del governo non intende riguardare – testualmente – «il tema della rilevanza del titolo di studio per l’accesso all’impiego privato».
Vero: le aziende sanno quanto valgono realmente i titoli e nel privato il problema è di molto inferiore. Ma se lo Stato dà il messaggio che le lauree universitarie sono tutte uguali, allora stiamo imbrogliando gli studenti. O i titoli hanno realmente uguale valore – e allora sbaglia il mercato –, oppure uguale valore non ce l’hanno affatto, e allora sbaglia lo Stato dando ad essi lo stesso valore nei concorsi pubblici, e facendo credere alle famiglie e agli studenti che frequentano università di minor valore che la loro laurea valga quanto quelle delle università migliori. Poiché non è così, dev’essere il mercato a decidere, al meno al di sopra di una soglia minima.
Dunque, abolizione del valore legale. È questa la soluzione?
L’abolizione del valore legale, in sè e per sè non è e non può essere la soluzione di tutti i problemi dell’istruzione in Italia. Bisogna affiancare all’abolizione del valore legale anche una vera autonomia di scuole e università, valutata dallo Stato che deve garantire gli standard minimi, e dal mercato per tutto ciò che sta sopra il minimo.
Se la sua proposta è ammissibile per l’università, ragioni culturali ben note impediscono di formularla per le scuole, per le quali sarebbe un tabù.
Credo di no. Invece di inseguire l’uniformità, potremmo benissimo pensare anche a scuole che offrano un mix originale di materie e di metodi. Il tutto, ovviamente, entro binari di riferimento stabiliti dallo Stato. Tanto più stretti quanto più si scende nel livello di istruzione. Ci sono ottime ragioni per avere scuole elementari molto uniformi e università molto differenziate.
Ora è lo Stato a dire: il corso di studi dev’essere fatto così, ed è lo Stato a rappresentare la garanzia del valore legale del titolo.
Sarebbe opportuno rimuovere questa garanzia fittizia. Che però – si badi bene – non vuol dire il «far west» educativo. Chi dice che se si abolisce il valore legale del titolo occorre poi rassegnarsi a farsi curare da un medico senza laurea, parla senza cognizione di causa e spaventa inutilmente i cittadini. Allo Stato deve competere la certificazione su livelli minimi: al di sopra dello standard, università e scuola facciano come vogliono e saranno valutate dagli utenti e da chi assumerà i loro studenti.
Avanti allora con certificazione e accreditamento dei livelli minimi. A che punto siamo?
L’Anvur sta andando nella direzione giusta. Credo che la strada dell’abolizione del valore legale al di sopra dei livelli minimi di certificazione necessari debba essere assolutamente percorsa, e richieda appunto ciò che l’Anvur sta facendo per l’accreditamento. Rimane il fatto, però, che al di sopra di questi livelli minimi non ci sono ancora margini di manovra sufficienti: l’offerta formativa delle università è troppo vincolata. I corsi opzionali di un corso di laurea ormai sono pochissimi. È l’idea, ancora una volta, di uniformare per cercare di garantire a tutti costi l’uguaglianza dei titoli. Le università devono diventare maggiormente autonome nel definire la loro offerta formativa, nell’assumere chi vogliono per insegnarla agli studenti e nell’alzare le tasse per finanziarsi. E gli studenti, aiutati dai prestiti condizionati al reddito ci diranno “con le loro gambe” quali università hanno saputo offrire una proposta educativa davvero efficace e credibile.
Cosa pensa della consultazione avviata dal governo?
Mi lascia perplesso: non so perché il governo abbia scelto questa strada. E soprattutto, che peso vorrà dare alle risposte.