Caro direttore,
Ho letto e riletto l’articolo di Silvia Avallone, e insomma non riesce a convincermi del tutto. Continuo a pensare che, in tempi come questi, avrei preferito un ragionamento meno strappalacrime e più analitico. Ho invece l’impressione che ci si trovi di fronte all’ennesima declinazione della consueta retorica all’italiana, un po’ sterile, fatta di belle immagini e di doglianze che, a ben guardare, non scomodano altro che l’ineluttabilità della sorte. Detto questo, penso che la questione centrale sia riassumibile in poche battute: “Che cos’è accaduto alla scuola italiana nelle ultime due generazioni visto che mia madre a 20 anni era già di ruolo – anche la mia, non solo quella dell’autrice – e ora c’è gente di 50 ancora in coda nelle mille e una graduatoria?”.
La risposta più semplice, a cui ammetto di non credere più di tanto, sarebbe quella del complottismo macroscopico. Una teoria orwelliana sempre accattivante: si sta smantellando l’istruzione, si sta minando la cultura per poterci meglio manipolare… Forse è stato vero in passato, ma oggi mi pare piuttosto un modo per scaricarsi la coscienza: qui in giro aleggia un BB (o GF) invisibile e io non posso farci nulla, se non tirare fuori il fazzoletto dal taschino, per arrendermi o piangere in silenzio. Cerchiamo allora altre risposte. La prima che mi viene in mente, che fa un po’ da cappello alle altre mie considerazioni, è che chi ha governato questo Paese (e parlo di ogni bandiera e colore) non abbia mai preso una reale decisione sul senso da dare al pubblico impiego: qualità e competitività o mutualità e assistenzialismo?
Con il risultato di optare per una via di mezzo che, finché la torta era abbastanza grande e i commensali pochi, sembrava accontentare tutti, ma che dopo un po’, quando le fette hanno incominciato a scarseggiare e gli invitati a moltiplicarsi, ha inevitabilmente finito per non soddisfare più nessuno. Era immaginabile. Dunque la domanda successiva potrebbe essere questa: ma perché la torta si è ridotta? E perché chi la mangia è sempre più numeroso e affamato? E qui la carrellata sarebbe senza fine. Ho isolato una manciata di idee tra le prime che mi vengono in mente:
1) Gli ultimi concorsi, esasperando una malaprassi già evidente, sono stati la festa del voto di scambio. Risultato: grandi sanatorie con decine di migliaia di immessi in ruolo senza adeguata selezione, il che ha assicurato l’ingolfamento del sistema almeno per i 20 anni successivi. E tanto per non scontentare nessuno, chi non è stato subito assunto è stato almeno abilitato, quasi per rifonderlo del viaggio.
2) Nonostante la difficoltà ad accedervi, il posto pubblico resta sempre appetibile, soprattutto in un Paese in cui il privato non funziona più e non può in ogni caso garantire nessuna sicurezza. L’insegnamento, poi, che è di fatto un impiego part-time, fa gola a moltissime/i.
3) Molte facoltà umanistiche, da cui proviene una grande maggioranza degli insegnanti che ora non trovano posto, non operano adeguata selezione in entrata, fino a diventare, in alcuni casi, un vero refugium peccatorum, con grave perdita di immagine e credibilità. A questo proposito mi è parso illuminante un articolo recentemente apparso sul Sole 24 Ore Scuola, in cui si auspicava una rigorosa selezione soprattutto nelle facoltà umanistiche.
4) Non dimentichiamo, poi, che la vita media si va allungando. Un bene, certo, una conquista preziosissima: ma non stupiamoci delle ricadute di questo bene sulle “giovani” generazioni, soprattutto se chi entra resta inamovibile anche se palesemente inadeguato.
5) A questo proposito tanto vale parlarci chiaro: non può essere competitivo un sistema da cui non si può uscire nemmeno se ci si siede ogni santo giorno a leggere il giornale in classe, e in cui non puoi entrare per meriti acquisiti nemmeno se hai scoperto il bosone. La sindacalizzazione necessaria, ma spesso esasperata (e ottusa) del settore ne ha rallentato molti processi, da un lato combattendo strenuamente ogni tipo di principio meritocratico, dall’altro facendo le viste di sostenerlo.
6) Tra le grandi responsabilità di certe sigle sindacali (e di certe parti politiche) c’è, a mio parere, quella di essersi sempre e ostinatamente opposte a ogni tentativo di revisione del sistema in senso territoriale. Con buona pace degli ultimi governi: non a caso, pur potendo contare sull’appoggio di una forza politica di ispirazione federalista, chi ha governato questo Paese negli ultimi anni non è riuscito a organizzare seri (e non improvvisati) modelli delocalizzati, che con ogni probabilità avrebbero razionalizzato e reso più economici i processi gestionali del carrozzone ministeriale, con benefici per tutti.