L’Italia non è un Paese facile per chi voglia fare delle riforme. Riformare forse la più antica istituzione italiana, l’università (la Chiesa cattolica è fuori concorso), incontra inevitabilmente opposizioni, ostacoli, fraintendimenti, difesa di rendite di posizione, arroccamenti. È di giovedì 6 settembre la notizia che il Tar del Lazio, cui si era rivolta L’Associazione italiana costituzionalisti, ha respinto la richiesta di sospensiva, in attesa di pronunciarsi su quella di annullamento del regolamento sui criteri e sui parametri per la valutazione dei candidati e dei commissari all’abilitazione scientifica nazionale propedeutica ai concorsi universitari.
Il professor Stefano Fantoni, fisico di fama internazionale, che da più di un anno dirige l’Anvur (Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca), non vuole commentare, “Aspettiamo la sentenza nel merito”, dice. Gli preme piuttosto spiegare – “Perché spesso ho l’impressione che chi ci critica non abbia letto accuratamente i nostri documenti – il senso e gli strumenti del sistema di valutazione che l’Agenzia che dirige sta approntando.
La polemica di questi giorni è nata sui criteri per l’accesso all’università, ma non è la prima…
Abbiamo già affrontato lo scoglio della VQR, la valutazione qualitativa della ricerca. È uno dei compiti che ci affida la legge 240, perché va ricordato che le nostre iniziative discendono da un mandato del Parlamento. Abbiamo messo in piedi un sistema di 450 valutatori, di cui più del 20 per cento stranieri, il cosiddetto Gruppo di esperti della valutazione (GEV), che ha il compito di valutare la produzione scientifica e umanistica, non a livello di singolo docente, ma dei dipartimenti e in ultima analisi di atenei. Una valutazione che inciderà sui finanziamenti premiali delle singole università da parte del ministero.
Finanziamenti premiali?
A oggi il ministero eroga agli 87 atenei italiani più di sette miliardi di euro, di questi quasi un miliardo, circa il 13 per cento, premia o dovrebbe premiare il merito; è aggiuntivo rispetto ai finanziamenti ordinari. Dalla VQR dipende l’erogazione di una buona percentuale di questi finanziamenti premiali.
Solo il 13 per cento?
Il nostro auspicio, ma non dipende da noi, è che si possa arrivare al 20 per cento, parametro che ci sembra più in linea con gli standard di altri Paesi nei quali la considerazione del merito in campo universitario è pratica più diffusa.
Quindi, non è in vostro potere chiudere un’università, ma condizionarne significativamente la disponibilità finanziaria.
L’Anvur non ha il poter di chiudere nessuna università, né desidera farlo. Il suo compito, attraverso la valutazione è quello di aiutare il sistema universitario a migliorare la sua efficienza e la sua capacità formativa della futura classe dirigente del Paese. I 450 valutatori divisi in gruppi a seconda delle discipline, che si avvalgono di più di 10.000 referees (arbitri/esperti) esterni quasi tutti internazionali, questo vogliono fare.
Come funziona?
Abbiamo a chiesto a tutti i docenti di mandarci i loro tre lavori migliori nel periodo di valutazione 2004/2011. I lavori vengono giudicati in parte sulla base delle citazioni ottenute, e in parte con il giudizio dei referenti esterni. C’è un precedente, la valutazione svolta dal Civr sulla produzione scientifica nel periodo 2000/2003, ora stiamo cercando di riempire il vuoto creatosi in questi anni. Dovremmo finire entro la metà del prossimo anno.
Le polemiche al riguardo su cosa si sono concentrate?
Il criterio di premiare il merito in linea generale è passato, ovviamente il corporativismo che contraddistingue noi docenti universitari ha generato sospetti sulla nomina dei 450 esperti della valutazione. Era messo nel conto.
Il mondo umanistico si trova stretto in questi criteri più numerici che qualitativi.
Ribadisco che non sono solo numerici. Ma è vero che c’è grande differenza tra “scientifici” e “umanisti”. Per le discipline umanistiche la valutazione viene svolta con il metodo della peer review, la valutazione tra pari. I GEV hanno predisposto un ranking delle riviste ma anche questo è solo un indicatore, la vera valutazione è la revisione tra pari. Il risultato è una peer review “guidata”, come si fa anche all’estero, ai referees offriamo una valutazione della qualità delle riviste che possono avvalersi del titolo di “scientifica”, il punteggio assegnato all’articolo pubblicato dipenderà però dal loro giudizio.
Il secondo problema di cui vi occupate all’Anvur è l’accesso all’università.
Non si fanno concorsi da anni. I concorsi sono e restano a livello locale, banditi dalla singola università. Quello di cui si discute adesso è l’impropriamente detto “concorso” (perché non vengono paragonate le persone fra di loro per sceglierne un tot, ma viene rilasciato un attestato di idoneità) nazionale per l’abilitazione, per stabilire cioè chi abbia i titoli per concorrere a un posto di docente universitario. Il problema ha due corni: stabilire i criteri che rendono un ordinario idoneo a sedere tra i commissari esaminatori e quelli in base ai quali la commissione valuterà chi ha fatto domanda di abilitazione.
Qui nascono i guai.
Sono 184 commissioni composte da 5 professori ordinari tra cui uno straniero, estratti a sorte da un panel di docenti che, oltre ad aver presentato domanda, hanno i titoli per farne parte.
È la discussa questione della mediana. Ce la spiega?
La legge, in sostanza, dice che i professori della commissione debbono essere qualificati almeno quanto i candidati. La soglia di “bravura” che va superata è stabilita dalla “mediana”. Faccio un esempio per essere chiaro, prendiamo in considerazione tutti i professori di matematica dell’università italiana, poniamo siano 100, vediamo quanti articoli hanno scritto negli ultimi 10 anni, chi 2 chi 5 chi 7, li mettiamo in ordine e li dividiamo esattamente in due: 50 professori staranno sopra questa linea e 50 sotto. Quelli sopra hanno il titolo per sedere in commissione. Ovviamente ho semplificato, il numero degli articoli non è l’unico indicatore, la citazione da parte di altre riviste internazionali e di altri studi aggiunge una considerazione qualitativa. Nulla è certo in assoluto, ma si cerca la combinazione di più indicatori possibili per determinare in modo non totalmente soggettivo il valore di un’attività di produzione scientifica.
L’accusa è: l’università non è fatta solo di discipline scientifiche.
Certo. Come è certo che scienziati, matematici, medici e ingegneri sono da tempo abituati a questi criteri, ci sono data base a cui attingere con tutti questi elementi bibliometrici. Ogni gruppo di ricerca in questi ambiti quando deve reclutare un ricercatore fa questo tipo di indagine di sua spontanea volontà, non ha bisogno che gliela imponga l’Anvur, sa quali riviste hanno più valore di altre, considera il numero delle pubblicazioni, delle citazioni…
Gli umanisti?
In campo umanistico al contrario che nei settori scientifici, non sempre è chiaro quali siano le riviste di maggior prestigio su cui puntare per collocare i propri lavori. Non hanno questa tradizione. Se chiedi ad alcuni giuristi, non tutti, dove è bene che un giovane pubblichi per avere più titoli, ti risponde: glielo dico io. Come? Dovrebbe già saperlo, dovrebbe essere noto a tutti. Inoltre non sempre sono chiari i metodi seguiti per la selezione degli articoli da pubblicare: in campo scientifico il giudizio sulla singola pubblicazione è espresso da referees anonimi che hanno il compito di valutare l’articolo ricevuto dalla rivista. Il decreto sull’abilitazione ha chiesto che tra gli indicatori da considerare nelle valutazioni vi sia il numero di pubblicazioni in riviste classificate in classe A, classificazione affidata all’Anvur, che si è avvalsa dei giudizi delle società culturali, degli esperti della valutazione e di un gruppo di saggi di chiara fama. Qui si sono sollevate le obiezioni più aspre ed è facile capire perché.
Quante sono queste riviste?
Le riviste su cui risultavano aver pubblicato al 15 luglio scorso gli studiosi di questi settori erano circa 16.000. Molte di queste non avevano carattere scientifico: vi erano ad esempio anche articoli apparsi nei quotidiani. È molto prestigioso pubblicare su Repubblica o sul Corriere della Sera, ma questi non possono essere considerati riviste scientifiche. La selezioni e la classificazione in classe A è stata fatta consultando le società culturali, i GEV, e un gruppo di saggi di chiara fama nelle singole aree umanistiche.
Affidare l’abilitazione al numero degli articoli apparsi su un numero ristretto di riviste cui si accede per relazione, conventicole… forse è riduttivo.
Non era questo l’unico criterio, erano tre: il numero dei libri pubblicati, il numero di articoli o capitoli di libri pubblicati come articolo e il numero di articoli sulle riviste di fascia A. Basta superare la mediana per uno solo di questi tre requisiti per essere abilitati, per l’ambito scientifico se ne richiedono almeno due. Per gli umanisti, tenuto conto anche della maggior difficoltà di individuare criteri di valutazione qualitativi, il decreto ha ampliato rispetto ai settori scientifici le possibilità di soddisfare i requisiti. Ciò nonostante si è generata una certa resistenza all’idea che un indicatore fosse basato su una classificazione delle riviste, resistenze certo dovute anche alla difficoltà di tali ranking ma anche all’idea che si possa sindacare sulla qualità delle molteplici riviste pubblicate.
Abbiamo parlato dei criteri per i commissari. Per i candidati?
La base è sostanzialmente la stessa, il criterio della mediana, con una differenza molto importante; la mediana non è prescrittiva, è indicativa. Può fare domanda chiunque, anche chi è sotto la mediana, la commissione a questo punto ha a disposizione ben 10 indicatori, quello della mediana è solo uno, per assegnare o meno l’abilitazione, e il peso dato ad esso in relazione agli altri 9 può essere deciso dalla commissione. Ovviamente sono tutti giudizi che dovranno essere motivati, ma la libertà della commissione è totale. Le commissioni infatti in fase di insediamento potranno decidere liberamente in che misura attenersi ai criteri quantitativi, se prevedere eccezioni eccetera.
La mediana potrebbe escludere geni come Beethoven o Einstein. Come risponde a questa obiezione?
Primo, la mediana è fatta per scremare i livelli più bassi. Secondo, i concorsi non sono fatti per scoprire Beethoven, che essendo un genio si afferma da sé, ma per reclutare i docenti universitari. Terzo, stiamo operando nel 2000, misurandoci con la realtà e i numeri di oggi, non di secoli fa; Einstein, tra i fisici del suo tempo, sarebbe certamente stato sopra la mediana e avrebbe ottenuto tranquillamente la sua cattedra. Ripeto, la commissone può, anzi deve, entrare nel dettaglio dei singoli lavori e dei vari titoli dei candidati e può accadere che anche un solo lavoro di rilevanza fondamentale faccia guadagnare l’abilitazione al candidato. Quindi queste obiezioni mi sembrano speciose. Paure di fronte all’apertura di una via che è un capovolgimento degli usi della nostra accademia: la valutazione degli ordinari. Fino all’altroieri ognuno di noi si sentiva rassicurato dai suoi concorsi e dai diritti così acquisiti.
Non avete troppa fretta? Non sarebbe meglio avere più tempo a disposizione per consultare meglio tutta la comunità scientifica?
In parte è vero, ma i tempi ci sono imposti dalle disposizioni di legge. Inoltre, in questo momento sono disponibili finanziamenti per i professori che, dopo l’abilitazione, parteciperanno ai concorsi locali e li vinceranno. Si tratta di cifre importanti di cui il sistema universitario non può e non vuole fare a meno. Se i concorsi non verranno fatti a breve, è molto probabile che questi finanziamenti verranno persi per incapacità di spesa. Inoltre, cominciamo, come Paese, a rispettare le scadenze prestabilite e non rimandare, rimandare, rimandare.