SCUOLA/ Per insegnare una lingua bisogna essere professori o “artigiani”?

- Silvia Ballabio

In occasione della Convention di Diesse del 12 e 13 ottobre ha preso avvio la Bottega di Lingua e letteratura inglese, coordinata da SILVIA BALLABIO. Dall'esperienza un metodo

granbretagna_inglese_londraR400 Infophoto

In occasione della Convention di Diesse del 12 e 13 ottobre fra le Botteghe dell’Insegnare, percorsi di formazione condotti da uno o più responsabili di Bottega, ha preso avvio la Bottega di Lingua e letteratura inglese, il cui percorso annuale affronterà, attraverso gli incontri on line e in presenza (calendario reperibile sul sito www.diesse.org, sez. “Le Botteghe dell’Insegnare”), alcune delle problematiche presenti oggi nella scuola italiana in merito all’insegnamento della lingua inglese. Una buona introduzione allo spirito della Bottega può venire, non a caso, dal mondo anglofono, ed in particolare dalla voce di chi, secondo Harold Bloom, ha “inventato l’umano”, William Shakespeare. In un canone dove anche le opere minori sono perle, una si presta sommamente a questo scopo: Amleto, con il suo eroe tragico, il Principe di Danimarca e “gli altri”. Fra gli altri, uno in  particolare, Orazio, l’amico di Amleto.

Nella vita, e non solo nei teatri, ci sono gli Amleti, che salgono labirintiche scale, si rimirano in grandi specchi, ammirano il capolavoro che è l’uomo, deprecano il marciume di letti incestuosi e di terre marce, e odono moniti che nessun’altro ode. Ed ogni Amleto ha il suo Orazio, Sancho Panza  rinascimentale pieno di buon senso, magari raffinato e cortese. Ma “There is no tragedy in him because he does not consider curiously”, “Nessuna tragedia in Orazio, perché non considera curiosamente”. “Consider curiously” è quanto fa invece Amleto, mentre rigira fra le mani un tappo di botte fatto con la polvere di Alessandro il Grande, condividendo con Orazio, l’amico caro, la  riflessione, decisamente rigorosa e decisamente iperbolica, su un mistero, la dissoluzione della fama e della carne, a tutti comprensibile, e per tutti “undiscovered country”. 

Che il buon Orazio rifugge: “Twere to consider too curiously to consider so“, “È considerare troppo curiosamente considerare così”. Orazio ha la sua “Philosophy”, che per lui non è la “question” (“domanda” o “questione” piuttosto che “problema” perché, etimologicamente, essa è “quest”, ricerca che si fa viaggio verso la meta), ma la difesa contro tutto quello che sta in cielo ed in terra. È pur vero che Orazio raccoglie il testimone nella staffetta della memoria da una generazione all’altra, sul palcoscenico della storia, da Amleto morente. Ma il dramma si chiude qui, senza che, nella storia, sia dato sapere se Orazio diverrà, finalmente, non Amleto, ma una cosa ben più ardua ed ardita: Orazio.

Si possono trovare degli Orazi che raccolgano il testimone di Amleto in punto di morte, e che possano costruire la storia essendo Orazi? O, appena fuor di metafora, si può ancora trovare chi consideri “troppo curiosamente” nella scuola? 

Meglio ancora, e del tutto fuor di metafora, è possibile nella scuola condividere una domanda di significato che (ri)dia avvio alla ricerca e alla pratica didattica, valorizzando i percorsi formativi esistenti ne e fra i docenti? Sembrerebbe di sì,   nelle parole di una partecipante alla Bottega di Lingua e letteratura inglese: “la Bottega è stata una bella novità, molto desiderata dalla sottoscritta, che è da anni punto di riferimento spesso autoreferenziale della mia scuola, e non solo. Insegno da 18 anni e la Bottega è riuscita ad aprire nuove possibilità creative di lavoro confermandomi dall’altra parte su una scelta d’insegnamento integrato tra comunicativo, grammaticale e testuale. Gli spunti sull’uso didattico delle immagini sono una delle mie passioni, perciò mi sono ritrovata anche come ‘sensibilità’ espressiva. Capisco che l’aggiornamento linguistico sia ora il punto più cruciale per me. Sicuramente desidero continuare il lavoro iniziato“.

Cosa rende una Bottega occasione di novità, al punto che due sole giornate di lavoro sono sufficienti a attivare, come abbrivio iniziale, quattro dinamiche di azione: la conferma del lavoro svolto per molti anni nelle sue linee metodologiche fondanti, l’introduzione di un elemento di ricerca da verificare, la percezione di un bisogno formativo che trascende l’orizzonte della Bottega e rimanda alla totalità dell’esperienza, e la condivisione di tutto ciò? 

Tutte le Botteghe, che sono chiamate “Comunità di docenti al lavoro dentro l’ambiente della scuola”, hanno quattro regole d’oro. La prima, “Si comunica ciò che si è”, è spietata; la comunicazione avviene se si è. Se non c’è comunicazione, non si è. To be or not to be, that is the question. A sparire è qualcosa di ben più grave della trasmissione di conoscenze e della costruzione di competenze; scompare un io, sia quello del docente, o del maestro di Bottega, e del discente, lo studente o chi va a Bottega cercando un maestro con cui costruire la cattedrale della propria professionalità. Ma come si fa ad “essere”?  

Per Amleto essere è domandare, “consider curiously”: del padre, della madre, della donna amata, del teatro, della morte, della politica, dell’amore, e quindi, troppo arditamente per Orazio, dell’uomo  tutto. Perché Amleto dipana un po’ della sua anima a chiunque incontri e, mal che vada, parla ai groundlings ad un penny (la paga di un giorno intero), gli spettatori del teatro di Shakespeare che non se ne stavano seduti in poltroncina, in terza fila, al silenzio e al buio. I groundlings si accalcavano distratti o affascinati giusto sotto le tavole del palcoscenico, e Amleto poteva sussurrare nelle loro orecchie, o declamare ad alta voce. Ma non era, in realtà, solo. Costruiva un dialogo fatto di domande dove la risposta era l’ascolto stesso ed anche il commento non sempre “polite” o “politically correct”.

Se questa è la “questione”, allora il percorso formativo di una Bottega consiste in una serie di domande, possibilmente incalzanti, possibilmente urgenti, e solo a partire dall’urgenza della “question” si potrà essere, e far essere. Condividendo, coma fa Amleto, le risposte che si accumulano, in un percorso non lineare, non di “progresso inevitabile”, l’una dopo l’altra, ma di “quest”, dove quel che è salda è la meta, e dove occorre navigare. 

La Bottega di Lingua e letteratura inglese si è aperta con una prima, cruciale domanda; i cosiddetti 3hpw learners (gli studenti a tre ore di lingua a settimana, la quasi totalità degli studenti della scuola post riforma) imparano la lingua, oppure no? Ne sono seguite molte altre. Cosa vuol dire imparare una lingua straniera oggi? Cosa è successo nella scuola con la riforma dei cicli? Scomparsi i programmi, la descrizione delle competenze degli studenti attraverso can-do statements (“sa fare …”) è una guida efficace e sufficiente nella programmazione didattica individuale? Cosa definisce una lingua? Cosa si intende per testo? Esiste una lingua inglese o vi sono tante lingue inglesi? Cos’è la cultura? Lo studio della lingua e della cultura straniera è per il cittadino, o per la persona? Come unificare lo studio di lingua e cultura, l’apprendimento linguistico e la formazione culturale? Quali approcci e metodologie sono in uso, o in disuso, anche se formalmente dichiarati, nella scuola, e come interagiscono fra loro nella dinamica della classe reale? È ammissibile che l’opera letteraria resti centrale nel percorso di apprendimento degli studenti del 21 secolo, o altri “testi” devono essere privilegiati? Si conosce davvero attraverso il testo, o attraverso l’opera tutta? Si può conciliare l’approccio sincronico con quello diacronico, si possono fondare in una unità armoniosa la singolarità dell’opera, o del testo, con la trasmissione di una tradizione?  

Nel corso del percorso annuale, i partecipanti alla Bottega, Bottegaia in testa, condivideranno domande e risposte, secondo quella che è un’altra delle regole d’oro delle Botteghe: “Il metodo della Bottega è l’esperienza”.





© RIPRODUZIONE RISERVATA

I commenti dei lettori

Ultime notizie

Ultime notizie