Mi sembra poco proficuo dibattere sull’utilità delle “valutazioni incrociate” (cioè affidate a insegnanti di sezioni diverse da quella frequentata dagli alunni che hanno eseguito il compito) senza almeno cercare di capire quale sia lo scopo di un compito in classe. Non è possibile infatti partire solo dalle conseguenze (il voto), anche se capisco la preoccupazione dei dirigenti scolastici che spesso devono far fronte a genitori irritati e agguerriti, convinti di ingiustizie e di pregiudizi degli insegnanti nei confronti del proprio figlio. Un preside può pensare infatti di ridimensionare le rivendicazioni della famiglia offrendo una valutazione “oggettiva” (intesa per altro riduttivamente come “neutrale”) dell’elaborato del figlio.
Già su questo fatto vorrei osservare che il clima molto spesso presente nei rapporti docente-discente-genitore è sbalorditivamente insensato: un clima fossilizzato nella diffidenza, se non nella rivalità, come se si dovesse essere l’un contro l’altro armati, mentre è del tutto evidente che un luogo realmente educativo vede chiunque ne sia coinvolto teso allo stesso scopo, in un circolo virtuoso per cui, se si è tutti tesi alla crescita del giovane, gli adulti stessi ne traggono un incremento di consapevolezza e quindi di umanità, che in ultima analisi torna anche a vantaggio del discente. Né il vantaggio del discente può essere appiattito solo sul risultato numerico delle prove scolastiche, per cui il buon esito coinciderebbe esclusivamente con la promozione.
La prova scritta normalmente viene proposta a seguito di un lavoro svolto in classe e consolidato da un lavoro domestico; la valutazione della prova in classe dipende in gran parte proprio dal percorso precedente (chiarisco con un esempio ovvio: in uno stesso testo latino proposto alla traduzione il confondere un singolare con un plurale sarà considerato errore grave al primo anno, ma per lo più una semplice svista al penultimo o all’ultimo anno). In altre parole, il voto dato a un elaborato dipende dalle richieste implicitamente o esplicitamente poste dall’insegnante, perciò non è possibile intervenire sulle conseguenze (il voto finale) senza prendere in considerazione tutto il lavoro che ha portato al testo prodotto dallo studente.
Il valore di una verifica, per altro, va ben al di là del voto, bello o brutto che sia: certo un bel voto è gratificante per uno studente, ma, in una visione anche solo di poco più ampia dell’immediato, ciò che risulta interessante è appunto la verifica di una strada che si sta percorrendo, l’opportunità di continuare con lo stesso metodo o di correggere qualcosa perché la frequenza scolastica sia più proficua.
Nel liceo classico in cui da anni insegno latino e greco, più di una volta mi è capitato di correggere i compiti in comune con i colleghi, cioè, dopo aver assegnato compiti identici nelle rispettive classi, di correggere gli elaborati insieme, talvolta a coppie, talvolta in un gruppo più ampio: ma (a parte sporadici casi in cui si chiede un estemporaneo parere tecnico) questo è avvenuto sempre dopo un lavoro comune di preparazione del compito, il che è stato possibile per una certa stabilità del gruppo, che ha portato nel tempo cordialità e stima per il collega e per il suo lavoro.
Una valutazione comune infatti può appunto scaturire solo dopo un lavoro comune tra docenti: tra l’altro l’abitudine a tale lavoro ridimensiona in parte anche l’idea di autonomia dell’insegnamento, che è legittima e doverosa (nessuno mi può imporre strategie educative o percorsi obbligati di apprendimento), ma che può spesso sconfinare nell’individualismo e nell’incapacità di confronto.
La proposta che quest’anno è partita da alcuni colleghi della scuola e che ha trovato consenso in tutti i docenti che vi si dovranno coinvolgere, sebbene formalmente possa sembrare coincidente, è radicalmente diversa da quella di scambi incrociati a proposito dei quali ho recentemente letto alcuni interventi; è diversa a partire dallo scopo, che non è innanzi tutto quello di raggiungere l’omogeneità o tranquillizzare i genitori, ma di aiutare gli studenti dell’ultimo anno ponendoli in una situazione in parte simile a quanto avverrà in sede di esame di Stato.
Nelle ultime classi infatti (quelle cioè i cui alunni dovranno sostenere l’esame a fine anno) quest’anno (per motivi di orario) l’insegnamento di latino e di greco è affidato non a un unico insegnante, come per lo più capita, ma a due persone distinte. Poiché all’esame di Stato quest’anno ci sarà come II prova scritta latino e il commissario che la correggerà sarà il membro esterno di latino e greco, i colleghi di latino hanno deciso di svolgere contemporaneamente in tutte le classi, in maggio, una simulazione di II prova, scegliendo un unico testo; la correggeranno però i colleghi di greco. Osservo però che tale scambio avviene con uno scopo preciso e che, ancora una volta, è possibile solo per una certa intesa, consolidata dagli anni, presente tra i colleghi.
Da tutto questo si vede come ritengo assolutamente improponibile la prassi tout court di scambi sistematici di verifiche tra colleghi. Tanto varrebbe affidare tutto (insegnamento compreso) a un computer (considerato, con un atteggiamento un po’ mitico, “oggettivo”, sempre nel riduttivo senso di “neutrale”): per parafrasare Eliot, vagheggiando un sistema scolastico talmente perfetto che l’insegnante risulterebbe inutile.
Spesso sembra che i vincoli imposti (o autoimposti) abbiano la pretesa proprio di arrivare a questa “perfezione” che ha perso di vista lo scopo.