1 settembre 2013. Come ogni anno oggi si svolge il primo collegio docenti dell’anno scolastico e, dopo le nomine per un incarico a tempo determinato, mi ritrovo eccezionalmente nella stessa scuola dello scorso anno: due nomine consecutive nello stesso istituto sono un miraggio incredibile e io giungo a scuola davvero felice di ritrovare alcuni colleghi con i quali è nata una bella amicizia e un’ottima collaborazione.
Più mi avvicino alla scuola, però, più è evidente uno stato di agitazione per me inspiegabile: molte colleghe hanno addirittura con sé i figli in età prescolare. Dagli zero ai cinque anni non ne manca nemmeno uno. Facendo gli ultimi passi controllo sull’agenda che la data del collegio sia quella giusta: nessun errore.
Mi avvicino a Maria che stringe il piccolo Pietro addormentato tra le braccia e le chiedo come mai tutti questi bambini a cinque minuti dall’inizio della riunione: “Ma come? Non lo sai? Da questa mattina, con ordine immediato, possono rimanere aperte solo ed esclusivamente le scuole statali. Il suo nido non apre i battenti e anche la scuola materna non potrà mai più riprendere l’attività. Per ora i più grandi sono dai nonni, ma non potevo lasciare anche lui”.
Un po’ costernata mi avvio con lei verso l’aula magna dove il fermento è ancora maggiore e i commenti tra i più vari: “Che disastro!” “Questa proprio non ci voleva!” “Era ora!” “Mia sorella ha rifiutato il ruolo nello Stato per non lasciare la sua scuola dopo 18 anni… ora come farà?” “Dopo decenni di battaglia finalmente gliele abbiamo chiuse quelle maledette scuole che ci succhiano i soldi”. Mi sembra di essere in un racconto di Buzzati e mi lascio andare su una sedia più stranita che mai.
Il dirigente fa il suo ingresso in sala e cerca faticosamente di prendere le redini della situazione: zittire gli insegnanti non è mai semplice, figuriamoci questa dozzina di bambini che oggi sono con noi! Ha un viso sereno, da trionfatore di battaglia millenaria: “Cari colleghi, questo anno scolastico non poteva aprirsi in modo migliore! Nelle ultime due ore non ho fatto altro che ricevere telefonate dall’Ufficio scolastico territoriale per riorganizzare il numero di classi e le attività didattiche in vista dell’incredibile afflusso che avremo di nuova utenza. Sono anni che combatto perché le paritarie smettano di rubarci alunni e soldi e finalmente ce l’abbiamo fatta. Ovviamente questo comporterà qualche disagio in questo anno scolastico, ma dal prossimo, organizzandoci bene, avremo finalmente più risorse da sfruttare!”
Sono ancora stranita, ma con un filo di voce riesco a chiedere: “Può quantificare il disagio?”. “Beh, chiaramente ci hanno chiesto di ospitare due classi in più e visto che tutte le aule sono già occupate ora dovremo capire quali laboratori smantellare per questo anno scolastico (certamente ne salterà uno di informatica e probabilmente quello di chimica). Inoltre le due classi non possono assorbire tutta la nuova utenza, che verrà spalmata anche sulle altre sezioni: la media degli alunni per classe sarà di 34… ma solo per questo anno scolastico”. Dalla platea, a questi numeri e a queste condizioni, si alza però un boato che spegne il sorriso del dirigente.
I primi a saltare sulla sedia sono gli insegnanti di informatica: “Impossibile! Abbiamo già turni serratissimi per l’uso dei laboratori, talvolta è già impossibile portare tutte le classi che ci sono, figuriamoci con tutti questi alunni in più, per cui non basteranno nemmeno più le macchine su cui lavorare, e con un laboratorio in meno. È impensabile una soluzione del genere!”. Anche il coordinatore del dipartimento di scienze prende la parola: “Mi scusi signor preside, ma come pensa che potremo insegnare la chimica e la biologia ai nostri ragazzi se eliminiamo l’unico laboratorio presente a scuola? Le sembra possibile che la nostra didattica diventi tutta teoria e niente esperienza?!”. Il Dirigente accende il microfono per rispondere, ma prima che possa cominciare insorge con veemenza, tra le tante voci che non si zittiscono, quella del responsabile della sicurezza: “Abbia pazienza preside, ma 34 alunni nelle nostre aule non ci stanno: se anche riuscissimo a stipare i banchi sarebbe impossibile evacuare in caso di necessità!”.
Il dirigente cerca di minimizzare, dicendo che il problema sarà solo per il corrente anno scolastico, e che la vittoria avuta della tanto agognata serrata vale pure qualche sacrificio. Anche i più convinti sostenitori di tale progetto, ora che si sta attuando a spese del proprio lavoro e della didattica, iniziano già ad arricciare il naso, a guardare a questo provvedimento come ad una vittoria di Pirro: classi da 34 alunni vuol dire certamente ridurre le opportunità didattiche, aumentare la mole di compiti in classe da correggere, eliminare la correzione di quelli a casa affidandoli al buon cuore e alla costanza degli studenti, aumentare notevolmente il disagio degli alunni (e chi negli ultimi anni ha lavorato al biennio o nei professionali sa bene cosa voglia dire avere classi movimentate e quanto questo incida sulla didattica e sulla preparazione degli studenti).
Il collegio resta in fibrillazione e nessuno dei presenti pensa che sarà un anno semplice: alcuni sono presi dallo sconforto e si adagiano mollemente sulla sedia: “Ma ti ricordi la Prima B dello scorso anno? I nove bocciati si sono ripresentati tutti: ti immagini doverli tenere in una classe da 34?” “Io non ci voglio neanche pensare: sicuramente a queste condizioni non potrò fare nient’altro quest’anno” e alzando la mano per chiedere la parola: “Preside io mi dimetto da ogni coordinamento e funzione strumentale. A queste condizioni è impossibile e inimmaginabile poter fare qualcosa di diverso che seguire le proprie classi” “Anche io” “Anch’io” “Per forza, pure io”.
7 giugno 2014. L’anno che ci siamo lasciati alle spalle è stato il più disastroso che le scuole italiane ricordino. Gli studenti che lo scorso anno manifestavano a favore dei tagli alla scuola “privata” (un’eredità che non è colpa loro: nessuno gli ha spiegato che in Italia la scuola è pubblica, statale o paritaria che sia!) già da novembre erano in piazza a contestare i “carri bestiame” che le loro aule erano diventate, l’impoverimento dell’offerta formativa di cui potevano usufruire, la mancanza di disponibilità di qualunque insegnante a portarli in gita o anche solo ad uscite di una giornata, l’assenza di ogni attività integrativa perché nessuno si era offerto o aveva accettato alcuna nomina di coordinamento.
L’attività didattica è stata quindi più volte interrotta, senza contare l’aumento incredibile dei provvedimenti disciplinari, soprattutto al biennio. La cosa però davvero singolare è stata che le più grandi preoccupazioni sono giunte all’improvviso, già nel mese di gennaio, dalle segreterie e dalle amministrazioni: la scuola statale è rimasta senza fondi. Chi aveva risparmi nel fondo d’istituto ha dovuto usare necessariamente quelli, nessuna scuola si è potuta permettere supplenti temporanei, nemmeno per assenze prolungate perché era impossibile pagare gli stipendi. Così gli alunni, anche di materne ed elementari, sono stati spesso fatti entrare più tardi e uscire prima, con notevoli disagi per i genitori che non hanno tardato a far sentire la propria voce.
Ma com’è possibile? Non sono stati tagliati i fondi alle paritarie? Dove sono tutti i soldi che quelle succhiavano alla scuola statale?
È stata una dura realtà quella che gli italiani si son ritrovati ad affrontare: aveva ragione chi aveva stilato la “bandiera della disparità”: le paritarie non sono sanguisughe del sistema scolastico, ma un’immensa risorsa (anche economica!) sempre nata dal basso e dunque risposta ad un bisogno che c’è. Per non parlare poi della necessità, perché un Paese possa progredire, della libertà di educazione. Ma su questo torneremo con un’altra favola!
(Giuditta Boscagli)