Caro direttore,
sono un giovane professore delle medie di 54 anni: ho appena concluso il terzo anno di insegnamento alle medie. Dopo aver insegnato nei Licei per molti anni mi sono ritrovato – avvicendamenti della vita! – ad insegnare nella scuola media.
Dichiaro subito il mio personale favore per la prova Invalsi, per due motivi: 1. È una prova unitaria a livello nazionale; 2. È una prova ben fatta.
Salvaguardata la peculiarità del percorso della singola classe grazie alla seconda prova (lo scritto di matematica-tecnologia-scienze), con l’Invalsi si dà la possibilità di misurarsi a livello nazionale su alcune richieste fondamentali, di contenuto e di capacità.
Al di là del complicato modo di valutarla, la prova tende a richiedere alcuni contenuti di matematica che noi, vecchi prof, facilmente riterremmo meno importanti e che saremmo portati a sacrificare sull’altare della matematica che abbiamo imparato, quella che più ci piace; sto parlando di me, ovviamente. Mi riferisco agli argomenti di probabilità, ma non solo.
Perché dico che la prova è ben fatta? Innanzitutto per un fatto sperimentale: fa bene la prova chi ha una reale sensibilità matematica, chi è capace di leggere in modo critico le richieste e di corrispondervi sull’asse del taglio “logico” che le caratterizza. Quindi devo ammettere che la prova è ricca di fantasia, nel senso non di eccentricità (pur essendo un po’ scentrata rispetto agli abituali insegnamenti di matematica!) ma fantasia nel senso di una più profonda capacità di immedesimazione.
Infine, ritengo che la prova è ben fatta anche nella scelta della forma: quiz a risposta multipla con inserimenti di brevi spiegazioni. Questa forma è ottima se non sostituisce la “vecchia buona prova di matematica”, cui tutti siamo giustamente affezionati, costruita e articolata su almeno tre quesiti di matematica che offra un percorso abbastanza complesso che comporti, perciò, doti di sintesi e di analisi sicuramente interessanti, che non possono emergere in ugual misura in una prova a test. Però questo tipo di prova a quiz, ben si affianca al solito elaborato di matematica, completandolo.
Ma posso entrare nel vivo della questione didattica interrogandomi sul tipo di richiesta che sottendono le prove Invalsi fin qui proposte? A me sembra che l’esigenza sottolineata dalle prove sia quella di un insegnamento che acuisca la “sensibilità matematica” dei nostri alunni. Non è tanto questione di contenuti nuovi… anche, ovviamente! Non è tanto questione di particolari tecniche di calcolo o di elaborazione… anche; sappiamo quanta importanza ha la tecnica nel discorso matematico! Non è tanto questione di esercizio… certo, è necessario esercitarsi, abituarsi a un certo tipo di prova. Ma allora che cosa è richiesto a noi professori per preparare adeguatamente i nostri alunni a sostenere con godimento, soddisfazione e efficacia questa prova?
Come sento dire da più parti, si tratta di assecondare una certa “curvatura” nel modo di insegnare la matematica, ma più ancora direi nel modo di “trattare” la matematica. Penso, infatti, che la svolta, la curva debba incidere sul modo di concepire la matematica e il suo insegnamento più che i contenuti in senso stretto (che sono tutti bellissimi, diciamolo!). Infatti, questo tipo di prova privilegia la costruzione di formule, più che la loro rigorosa applicazione, il riconoscimento di proprietà, piuttosto che una loro elencazione, l’orientarsi prima dell’affidarsi a schemi risolutivi, la stima delle possibilità piuttosto che il calcolo esatto delle probabilità, …in sintesi, richiede di sapersi immedesimare nella realtà e di sentire il problema, prima dell’intento risolutivo.
Come prepararsi all’Invalsi, perciò? Penso che una prova come l’Invalsi costringa noi insegnanti a non accontentarci di risposte sapute dai nostri alunni, della buona restituzione dei fatti insegnati. Invalsi sì, Invalsi no è fondamentale mettere in discussione profondamente la natura e le ragioni del nostro insegnamento. Credo che la prova Invalsi ci costringa – soprattutto perché non la prepariamo noi – a disporre l’animo dei nostri alunni all’incontro con il diverso, con l’altro, con il “disabituale”, con il nuovo. Diversamente da quel che si è portati a credere, l’apertura al nuovo si prepara. Eccome! Principalmente chiedendo l’apertura del cuore, quindi della mente. Si tratta di essere disponibili a lavorare da matematici sulla matematica, privilegiando la scoperta e l’inventiva ad un apprendimento “meccanico” delle sue tecniche di soluzione.
Il problema, lo ribadisco, non riguarda innanzitutto i contenuti: insegnando il “solito” Teorema di Pitagora si può risvegliare il matematico che c’è dentro il più spento degli alunni, abilitando il suo cuore all’incontro con l’affascinante mondo delle probabilità, come anche può accadere di deprimere l’animus matematicus del più brillante degli alunni parlando di statistica, di probabilità o di ricerca operativa, precludendo la sua esperienza del ricco mondo di Pitagora. Tutto dipende dall’esperienza di reale scoperta che vive l’insegnante nell’atto di insegnare e da quanto questa è capace di destare la curiosità nell’alunno, il suo senso del reale e lo stupore per la bellezza di forma, di logica e di significato che il pensiero matematico porta con sé.
Questo lavorio richiede tempo – tanto! − e un uso del tempo intelligente. Certo 4 ore alla settimana, spesso di 50 minuti! − solo nella scuola la durata dell’ora è così variabile – sono poche per tutto questo lavoro. Non potendo far diversamente, ecco allora una prima piccola proposta: le competenze richieste in questa prova non riguardano solo l’insegnamento della matematica. Perché non allargare la preparazione dell’Invalsi al Collegio? Si può cominciare a collaborare a fondo con il collega di tecnologia, e poi .. Ma questo probabilmente già accade nella maggioranza delle scuole, perdonate la mia inesperienza. Buon lavoro a tutti e, ormai, buone vacanze.