È proprio inevitabile che i dirigenti scolastici vengano scelti nelle aule dei tribunali, anziché in quelle scolastiche? A giudicare dall’andamento dell’ultimo concorso (ma non solo), sembrerebbe che il contenzioso sia l’esito fatale di ogni procedura di selezione, soprattutto per livelli così “esposti”. In realtà, basta affacciarsi per un momento fuori dai nostri confini per rendersi conto che non è affatto così: nella maggior parte dei paesi con cui ci confrontiamo abitualmente, le procedure si svolgono in modo fisiologico e senza particolari tensioni, anche se con modalità molto diverse.
Se prendiamo, ad esempio, un Paese come l’Inghilterra, il percorso di selezione risulta per noi difficilmente comprensibile, ma in realtà funziona perfettamente. Cominciamo con il dire che il reclutamento – dei presidi, ma anche dei docenti e di tutto il personale della scuola – è totalmente decentrato a livello di singola istituzione scolastica. Quando una scuola prevede di avere necessità di un dirigente, mette semplicemente un avviso sul giornale: in tempi più recenti, anche su Internet. Ogni venerdì, uno specifico supplemento del Times, il TES (Times Educational Supplement), pubblica un consistente fascicolo tutto dedicato alla scuola.
Buona parte si occupa della ricerca di personale: le scuole interessate descrivono le proprie caratteristiche, la tipologia, la collocazione geografica, la popolazione studentesca, eventuali altri aspetti significativi e disegnano il profilo del candidato ideale: esperienze precedenti, studi, profilo professionale. E, naturalmente, precisano le condizioni economiche offerte (che sono in parte negoziabili).
Non è strettamente necessario essere insegnanti per candidarsi, anche se di fatto quasi tutti gli aspiranti lo sono (o lo sono stati). Non servono neppure titoli specifici, salvo che le singole scuole lo richiedano. Fino a pochi mesi fa era richiesta una certificazione NPQH (National Professional Qualification for Headship). Si tratta di un diploma tuttora esistente e molto apprezzato, ma il cui possesso non è più vincolante. A rilasciarlo, direttamente o su convenzione con le Università, è il National College for School Leadership (un’istituzione indipendente, ma che lavora su mandato del Dipartimento per l’Istruzione) che progetta ed eroga i corsi relativi. L’iter formativo inizia con un test diagnostico, per identificare le aree in cui il candidato necessita di formazione: gli viene poi disegnato un percorso fatto di moduli, al termine del quale, una volta superati tutti gli esami, ottiene l’attestato. Il costo per gli aspiranti si aggira sulle 800 sterline e la durata è variabile a seconda del numero di moduli da seguire.
Coloro che sono interessati a rispondere a un annuncio inviano il proprio fascicolo personale, nel quale forniscono tutte le informazioni richieste dalla scuola, più quelle che ritengono utili a presentarsi: per esempio, referenze di scuole in cui abbiano insegnato o che abbiano diretto in precedenza. È la stessa scuola a esaminare la documentazione: a farlo è un piccolo gruppo designato dal Board of Governors, quello che noi chiameremmo Consiglio di Istituto, ma che in Inghilterra è prevalentemente l’espressione degli utenti e del territorio, oltre che dell’Ente locale. A volte, al Board si affianca un esperto esterno.
La commissione opera una prima scrematura e redige una short list, cioè la lista dei candidati che appaiono più interessanti per il posto da coprire. I selezionati vengono invitati per un colloquio, che può durare da qualche ora a un paio di giorni: incontrano i Governors, alcuni insegnanti, eventualmente i rappresentanti dei genitori. Discutono con la commissione del modo in cui affronterebbero i problemi della scuola, delle proprie priorità e strategie, delle innovazioni organizzative o didattiche che vorrebbero introdurre. Lo schema del colloquio è piuttosto libero: non si tratta di un esame nel senso tradizionale del termine, quanto di un vaglio della persona e delle sue caratteristiche. Non si cerca il “più preparato”, ma quello che sembra rispondere meglio alle aspettative dell’ambiente.
Al termine, la commissione sceglie il candidato che appare più idoneo, al quale viene proposto un contratto: a volte per un periodo, ma più spesso a tempo indeterminato. Si tratta di un contratto di diritto privato, che lega il dirigente a quella specifica scuola. Se e quando vuole cambiare, deve proporre nuovamente la propria candidatura in risposta a un altro annuncio e ricominciare la trafila della selezione.
La commissione può sbagliare? Certamente e in questo caso ne risponde “politicamente” al Boarde agli utenti. Del resto, se il prescelto non si rivela all’altezza, il contratto prevede anche le clausole rescissorie. A una risoluzione più o meno consensuale si arriva anche se i risultati di apprendimento degli studenti, misurati nei test nazionali, sono insoddisfacenti: o se le ispezioni dell’OFSTED (Office for Standards in Education, Children’s Services and Skills) evidenziano carenze di gestione. Ogni anno, per memoria, 80-100 presidi perdono il proprio posto: ma, di solito, non hanno difficoltà a ricollocarsi, data la relativa penuria di candidati.
Il modello funziona perché riposa su un dato che nessuno mette in discussione: anche se gli ordinamenti generali dell’istruzione sono stabiliti a livello nazionale, la committenza del servizio appartiene all’utenza e al territorio, attraverso il Board. È a loro e solo a loro che risponde il preside, sulla base di un rapporto fiduciario e in risposta a richieste che emergono a livello locale.
Questo ne fa una ricetta non esportabile nel nostro Paese, in cui è radicata la convinzione che titolare esclusivo del servizio di istruzione sia naturaliter lo Stato. Ma occorre allora accettare le conseguenze di quell’assunto: uno Stato in crisi (culturale e di ideali prima che di risorse) non può che riflettere tale crisi nell’esercizio della committenza educativa, a cominciare dalla scelta di chi deve rappresentarlo nelle scuole.
Prima di stupirci del contenzioso che affligge i nostri concorsi, chiediamoci per un momento se noi tutti, come comunità, siamo convinti che il “bene istruzione” appartenga ancora legittimamente e in esclusiva al moderno Principe. Non si possono desiderare gli effetti, se non si è disposti ad accettare le premesse in grado di generarli.