“Non vitae, sed scholae discimus“. La citazione di Seneca, che capovolge il famoso proverbio latino, viene messa a cappello del quinto volume di Ocse-Pisa 2012, l’atteso rapporto dedicato alla rilevazione delle competenze di problem solving degli studenti quindicenni di 44 nazioni (tra cui 28 Paesi dell’Ocse).
Le parole del filosofo definiscono la più efficace ed icastica sintesi delle conclusioni e delle critiche sul sistema scolastico italiano che emergono in questi giorni sui media dopo i primi commenti a caldo, seguiti alla presentazione e alla pubblicazione del rapporto. I commenti, come d’abitudine, si focalizzano soprattutto sulla graduatoria tra i Paesi, e trascurano altri stimoli che rappresentano il vero e proprio valore aggiunto dell’indagine internazionale, ma che richiedono una più attenta, profonda e meditata lettura dei dati.
Il problem solving non fa la sua comparsa per la prima volta in questa edizione. Già nel 2003 questo tipo di literacy è stato introdotto, con l’obiettivo di rilevare quanto gli studenti quindicenni fossero in grado di mettere in atto processi cognitivi per affrontare situazioni reali ed interdisciplinari, per le quali il percorso di soluzione non è immediatamente evidente; si tratta di cimentarsi con settori di competenza o aree curricolari non riconducili in modo stretto agli ambiti della matematica, della scienza o della lettura.
L’analisi dei dati raccolti non aveva portato ad evidenze degne di particolare rilevanza, forse perché il quadro di riferimento adottato era ancora strettamente legato ad un approccio disciplinare.
Per questo in PISA 2012 il framework descrittivo della competenza viene ampliato ed approfondito.
E’ vero che il problem solving rappresenta anche una componente della stessa literacy matematica di Pisa 2012, laddove al livello 3 di questa si pongono studenti in grado di “utilizzare processi di problem solving essenziali” ed al livello 5 più genericamente si specifica che gli studenti hanno “competenze di problem solving”.
Ciò premesso, la competenza che gli osservatori intendono ora rilevare ha una portata e ed una curvatura più ampia. Anche l’aggettivo “creativo”, con cui la competenza viene specificata anche nel titolo del rapporto (creative problem solving) ha una denotazione che ci pone lontani dalle aule e ai programmi tradizionalmente scolastici.
Alla base è la consapevolezza che si tratta di una dimensione chiave per il successo nel lavoro di oggi, come rilevato anche della recente indagine sulle competenze degli adulti (Ocse-Piaac) e da molti studiosi sulle tendenze del mercato del lavoro. Le società attuali sono sottoposte a cambiamenti continui ed imprevedibili, un lavoratore su 10 oggi dedica più di trenta minuti al giorno per cimentarsi ed affrontare problemi nuovi.
Il rinnovato e più ampio concetto di problem solving ha alla base la capacità di un individuo di mettere in atto processi cognitivi per comprendere e risolvere situazioni problematiche per le quali il percorso di soluzione non è immediatamente evidente. Questa competenza comprende anche aspetti motivazionali ed affettivi, come la volontà di confrontarsi con le situazioni per realizzare le potenzialità degli individui in quanto cittadini riflessivi e con un ruolo costruttivo.
Le prove, messe a punto per la rilevazione di tali aspetti ed in parte rilasciate, suddividono i problemi da porre, secondo diversi livelli di complessità, in due categorie: su un piano si pongono i cosiddetti problemi “statici”, con quesiti che contengono tutte le informazioni rilevanti, e su un altro fronte vengono posti problemi “interattivi”, dove il soggetto, interagendo con i dispositivi informatici, deve scoprire da solo aspetti ed informazioni rilevanti per cogliere i dati importanti. A tale proposito si ricorda che le prove sono somministrate con modalità informatizzata e dunque lo strumento informatico gioca un ruolo importante per la concettualizzazione e la navigazione dei concetti: questo, se da un lato rende più semplice la somministrazione delle prove, dall’altro lato rischia di ridurre la portata della competenza da indagare ad un ambito meno ampio e collegabile a tutti gli aspetti della vita umana.
Sono quattro le tipologie di processi che vengono sondati e che, in ordine crescente di difficoltà, riguardano:
1. L’esplorazione e la comprensione delle informazioni poste dal problema.
2. La rappresentazione e la riformulazione delle questioni. È fondamentale la capacità del soggetto di formulare ipotesi, cogliere i fattori rilevanti e le relazioni tra di essi.
3. La capacità di pianificare ed eseguire, anche attraverso l’elaborazione di un piano articolato in obiettivi ed in sotto-obiettivi e dei relativi passaggi.
4. Il monitoraggio e la riflessione: l’errore è un fattore decisivo di acquisizione costruzione di conoscenza, di messa a punto delle strategie adottate.
Delineato il quadro di riferimento, quali sono le evidenze più significative che derivano dal rapporto?
La tabella Va del rapporto offre un’istantanea dei risultati già significativa e ricca di informazioni.
Ai livelli più alti della scala si pongono gli studenti quindicenni dei paesi asiatici. Singapore, al top, ha una media di 562 a fronte della media Ocse di 500; gli studenti con basse prestazioni (sotto il livello 2) rappresentano solo l’8% (la media Ocse è del 21,4%, risultati migliori li consegue solo la Corea), quelli con alte prestazioni (livelli 5 e 6) sono il 29,3% (a fronte di una media Ocse dell’11,4%).
A livello di paesi Ocse, complessivamente considerati, anche per le competenze in problem solving, come per le altre literacy, è indubbiamente preoccupante il dato medio sugli studenti con scarse capacità, dal momento che 1 su 5 non raggiunge il livello 2 di competenza.
Come ampliamente evidenziato anche dalla stampa, l’Italia si è posta ad un livello inaspettatamente elevato, al di sopra della media Ocse (510 punti), al 15° posto, davanti a Germania e Stati Uniti.
Alta, in Italia, è la differenza di genere, con prestazioni dei maschi significativamente superiori (18 punti) rispetto a quello delle femmine.
Migliore rispetto alla media Ocse è il risultato italiano sui “low performer”, mentre il dato sugli studenti più bravi (livelli 5 e 6 della scala) si pone in linea con i paesi di area Ocse. Al livello più alto, in particolare, il livello 6, l’Italia presenta una percentuale statisticamente non superiore a quella dei paesi partner.
Altro aspetto significativo che riguarda il nostro paese è la performance nettamente più alta degli studenti italiani sul problem solving rispetto ai risultati attesi degli stessi studenti in matematica: gli italiani, su questo fronte, realizzano, mediamente, 10 punti in più. Questo dato, che merita di essere ulteriormente approfondito, è stato univocamente interpretato come ulteriore prova dell’incapacità del sistema scolastico italiano di adottare strategie didattiche efficaci per sfruttare al meglio le potenzialità di nostri studenti nell’apprendimento delle discipline scolastiche.
Un altro aspetto positivo che caratterizza la situazione italiana ha a che fare con l’influenza della condizioni sociali, culturali ed economiche della famiglia di provenienza sulle performance che, per il problem solving, incidono nettamente meno che per la matematica, le scienze o la lettura.
Su questo risultato l’Italia in Europa è preceduta solo dall’Estonia e dalla Norvegia ed è l’ottava al mondo.
Tecnicamente si può dire che sulla capacità di affrontare e risolvere problemi gli studenti italiani sono più resilienti rispetto a molti altri partner, hanno cioè la capacità di emergere nonostante le condizioni di provenienza della famiglia. Su questo, però, fanno eccezione gli studenti immigrati le cui performance sono nettamente inferiori a quelle attese: peggio di noi fanno solo quattro nazioni.
Un altro dato che offre spunti di riflessione è quello che riguarda l’uso delle tecnologie informatiche. L’utilizzo di computer a casa incide positivamente sulle prestazioni degli studenti (anche al netto delle variabili socio-economiche); statisticamente irrilevante è, invece, l’utilizzo del computer a scuola. Se ne può concludere che non è lo strumento in sé che può rendere efficace o meno la scuola, ma il modo in cui viene utilizzato ed integrato all’interno delle strategie didattiche.
Altrettanto significative – e su questo si rimanda ad una lettura delle tabelle poste in appendice al rapporto −, sono le differenze regionali italiane, che riproducono grosso modo quanto si è già riscontrato per le altre literacy. Anche in questo caso il Nord ha posizioni migliori, con il Nord-Ovest che precede di poco il Nord-Est e lo pone ai livelli più alti al mondo.
Un ultimo dato rilevante riguarda le differenze tra istituti, con i licei in posizione di superiorità rispetto ai tecnici ed ai professionali, ma con scarti sensibilmente inferiori rispetto a quelli per le competenze matematiche e di lettura.
Il rapporto internazionale dedica il capitolo finale a suggerire elementi utili nell’ottica di definire politiche e pratiche scolastiche orientate al successo formativo di tutti gli studenti, partendo dalla previsione che studenti con migliori potenzialità in termini di problem solving hanno migliori possibilità di trovare occupazioni di prestigio.
Il rapporto fa riferimento anche alle cosidette best practice, rappresentati dalle esperienze della Provincia dell’Alberta in Canada, o da Singapore, che sono tra i “top peformer”. Punti forza del successo di tali sistemi sono la messa a punto di curricoli innovativi che valorizzino il pensiero critico, le capacità di risolvere problemi e prendere decisioni, stimolando approcci creativi e non convenzionali.
Presupposto per la sviluppo del problem solving è quello di non insegnare le soluzioni su quesiti precostituiti in modo standardizzato, ma di creare contesti scolastici in grado di stimolare la riflessione e la ricerca di significato da parte degli studenti, nonché le capacità metacognitive. Fondamentale è la promozione di un approccio interdisciplinare, anzi “inter-curricolare” e la promozione di progetti ricchi di significato e di stimoli.
Tali approcci possono risultare efficaci, mette in guardia il rapporto, soltanto nel quadro di un orientamento costante alla valutazione degli apprendimenti e delle competenze che si intendono sviluppare.
È chiaro che per tradurre tali indicazioni in politiche e linee di intervento concrete da parte degli organi ci governo si richiede un’opportuna capacità di riflessione e di elaborazione, per poter veramente conseguire il miglioramento dei sistemi scolastici: le soluzioni devono adeguarsi ai diversi contesti culturali, sociali ed economici su cui essi vanno ad agire.
La lettura del rapporto, pur evidenziando indubbi aspetti positivi, sembrerebbe comunque evidenziare alcune criticità della scuola italiana, che non è in grado di soddisfare pienamente i bisogni formativi di ampie categorie di studenti; alla luce ci ciò sarebbe importante porsi nell’ottica di ripensare le modalità di insegnare ed apprendere delle nostre scuole, per poter progettare ed attuare curricoli adatti ad affrontare le sfide che il futuro ci riserva.