Caro direttore,
so bene di accingermi a tentare una impresa complicata nel replicare all’intervento di Filomena Zamboli sulla “educazione alla legalità senza le leggi”.
Virgoletto l’espressione, di cui rivendico amaramente il copyright, perché il ragionamento della preside Zamboli si inserisce, sia pure con la particolare maestria delle argomentazioni emotive fortemente coinvolgenti (lo scrivo senza la mia consueta ironia e con tutto il rispetto necessario e dovuto alla vicenda narrata ed alle persone citate nell’articolo che conosco personalmente), in una “corrente di pensiero” che viene smentita, come proverò ad argomentare, proprio nei tempi di discussioni accese come quelle che si sviluppano, senza soluzione di continuità, negli anni successivi alla teorizzazione a cui aderisce la Zamboli e che ha avuto nell’allora ministro Gelmini la massima sostenitrice con la decisione di eliminare lo studio del Diritto e di non attivare l’insegnamento disciplinare di Cittadinanza e Costituzione.
Pure reputo necessario provare a sgombrare il campo da un equivoco che mi pare l’articolo, ultimo di una serie, continui a perpetuare: l’idea che l’educazione alla legalità si possa basare puramente e semplicemente su dati emozionali tanto forti da rendere permanente e sistematica la consapevolezza del rispetto delle regole evidentemente ignorate nella loro complessità ed organicità.
Già Claudio Risè si era fatto portatore di questa idea,in un articolo pubblicato qualche tempo fa, ma essa è, come ho provato ad argomentare, oltre che debole, smentita anche da una realtà cronachistica di realtà culturali impermeabili persino ad episodi efferati ed emozionalmente coinvolgenti (mi riferisco alla non lontana vicenda di Quarto Oggiaro, periferia milanese, del tassista barbaramente ucciso per un cane investito) perché vissuti direttamente e senza nemmeno la mediazione del racconto di testimoni.
Reputo comunque improba l’impresa di confutare le tesi dell’ultimo articolo anche perché avendo precisa conoscenza e memoria personale della vicenda di Simonetta Lamberti, da cui trae spunto l’articolo di Zamboli, mi rendo conto che provare a smontare la posizione teorica pure molto netta (la preside cita, fra l’altro, proprio lo studio del Diritto come una delle alternative alla sua posizione) urta contro l’evidenza che la “didattica della testimonianza” possa funzionare, come qualsiasi docente che l’abbia utilizzato anche una sola volta ben sa, da detonatore del cambiamento.
Ci provo, però, perché non passa giorno che non riscontri i guasti presenti e soprattutto futuri legati all’idea che educare alla legalità sia possibile sollecitando le emozioni ma ignorando bellamente le leggi e la cornice normativa in generale.
Il dissenso, lo chiarisco fin d’ora, non è, però, su quale sia la strategia educativa migliore ma è, in modo netto, sull’idea che parcellizzando emozionalmente le conoscenze degli studenti sia possibile arrivare a raggiungere una integrale “abitudine” (uso questo termine visto che la Zamboli sembra aborrire la parola “educazione”) al rispetto delle regole ed alla partecipazione democratica.
Perché il rischio dell’approccio suggerito dalla Zamboli è che servano una serie di testimonianze (del sopravvissuto ad un delitto di mafia, del reduce da un incidente stradale causato dall’imprudenza, del politico che si ritira perché deluso dal lavoro nelle istituzioni, del netturbino che racconta dell’immondizia lasciata fuori dal cassonetto, del vigile urbano che sequestra lo stabilimento balneare costruito prima del termine della concessione amministrativa, della preside che verifica che le macchine parcheggiate fuori posto davanti alla scuola hanno impedito l’intervento salvavita dell’ambulanza) per provare a dare un’idea della sistematicità delle norme che garantiscono (o dovrebbero garantire) la convivenza sociale.
Gli esempi non sono inventati o esemplificativi ma sono tratti dalle pagine assai recenti dei quotidiani nazionali e mi sono limitato nel numero di riferimenti perché già questi bastano a supportare la mia obiezione principale alla tesi della preside Zamboli.
C’è poi un altro punto di difficoltà ed è quello della dinamica che dovrebbe governare la “didattica della testimonianza” così come raccontata ed ipotizzata nell’articolo.
Il quesito è: testimonianze raccolte grazie alla buona volontà di quale docente?
Quello sensibile? Quello che ne trarrebbe spunto per le sue lezioni? Quello che magari le ritiene un valido strumento?
Insomma chi si farebbe carico di costruire la trama delle regole da rispettare?
I teorici (compreso qualche autorevole collaboratore di questo giornale) della “educazione alla legalità senza le leggi” ipotizzano che sia compito di ciascun buon docente disciplinare, a prescindere dalla materia insegnata, farsi carico di costruire la trama e la Zamboli sembra aderire, attraverso anche una serie di interrogativi retorici, a questa linea di pensiero.
Non vorrei fare il provocatore ma alzi la mano chi conosce un caso di docente di Chimica, di Educazione fisica, di Elettrotecnica, di Matematica, di Storia dell’arte, persino di Geografia economica (ho citato alla rinfusa ripercorrendo tutte le varie tipologie di istituto in cui ho insegnato e i colleghi che ho intercettato) che, almeno per una volta nella sua esperienza didattica, si sia fatto tentare da quello che Risè nel suo articolo definiva “il parlare molto di legge”.
E se l’obiezione fosse che sono stato io ad essere stato molto sfortunato ad incontrare colleghi che ignorano, nella quasi totalità dei casi, persino cosa sia il “bicameralismo perfetto”, per restare ad un tema di strettissima attualità, consiglio di ritrovare in Rete i risultati delle indagini fatte qualche anno fa dalla Regione Piemonte sulle conoscenze giuridiche degli studenti delle superiori ed una ancor più recente ricerca di Proteo Fare Sapere sulle conoscenze degli studenti italiani del Diritto costituzionale improvvidamente citato proprio dalla Zamboli nel suo articolo.
Non vorrei poi infierire sulla casta dei politici (infierire è lo sport nazionale non solo “grillino” che tento di contrastare nelle mie lezioni di docente di Diritto) ma non più tardi di tre sere fa mi è capitato di ascoltare in tv un noto esponente dell’entourage del presidente del Consiglio parlare a proposito della revisione costituzionale, di “doppio voto delle Camere a distanza di sei mesi” quando dovrebbe essere notorio (almeno per i miei studenti) che i mesi sono “almeno tre”.
Si sedimentano, cioè, a vari livelli, deficit di conoscenze necessarie almeno a comprendere la realtà istituzionale più prossima al comune cittadino.
Cosa c’entra questo con le tesi espresse nell’articolo stupidamente (non s’offenda il titolista del sussidiario ma stavolta è stato davvero infelice) intitolato all’ipocrisia delle norme?
C’entra perché se vogliamo restare nel quadro europeo delle competenze di cittadinanza è evidente che tali competenze non possono essere basate su conoscenze episodiche, puntiformi o, peggio ancora, caratterizzate da una prevedibile discontinuità o addirittura presenza a macchia di leopardo nelle diverse realtà scolastiche.
Insomma, anche se è stato persino teorizzato, qualche anno fa, negli ambienti ministeriali, il “federalismo delle conoscenze giuridiche” non può arrivare al punto di immaginare che in alcune scuole, in alcune realtà regionali, il discorso sulle regole si avvii e si sviluppi mentre è accettato il principio che laddove gli studenti siano stati sfortunati essi si arrangiano e rinunciano ad acquisire le competenze di cittadinanza.
Segnalo poi un altro aspetto paradossale frutto della confusione generata dall’introduzione della disciplina-fantasma Cittadinanza e Costituzione: la disciplina non esiste né come monte-ore né come valutazione ma le scuole vengono inondate (me ne sono giunte finora da settembre ad oggi 18) di circolari relativi alle iniziative più fantasiose di soggetti esterni alla scuola che sono i più vari (per carità di patria evito di citare analiticamente tutti i soggetti che, a vario titolo, vogliono “piazzare” qualche “prodotto” nelle scuole) e che hanno come denominatore comune solo le paroline magiche di “Cittadinanza e Costituzione”.
Un mosaico di stimoli, di testimonianze, di percorsi spesso confusi e che se fossero seguiti tutti genererebbero una gran confusione e nessuna visione organica da parte degli studenti sul perché delle regole.
Non vorrei scrivere per aneddoti, anche se la tentazione di imitare Zamboli è forte, ma giusto per provare a raccontare cosa intendo quando parlo di mancanza della trama sistematica delle regole mi è capitato tre mesi fa di accompagnare i miei studenti ad una iniziativa in un altro istituto molto coinvolgente e basata anche su testimonianze dirette relativa ai totalitarismi ed alla Shoah.
Foto e filmati che documentavano l’oltraggio alla persona coniugato con la più totale mancanza di umanità.
Umanità che, invece, traspariva dal racconto dei sopravvissuti.
Studenti attenti, silenziosi e colpiti dalle immagini e dalle riflessioni di chi interveniva, poi all’uscita gran parte di essi, sciamando verso l’uscita, ha cominciato ad allontanarsi con i motorini.
Nessuno di essi col casco in testa ed alcuni impennando persino il mezzo tra i passanti spaventati.
Mi si obietterà che il racconto c’entra poco con l’idea di fondo dell’articolo di Zamboli?
Non credo, anche perché gli studenti senza il casco sono i futuri elettori italiani.
La discussione che sta accompagnando le proposte di riforme costituzionali e l’ipotesi della nuova legge elettorale sconta innanzi tutto una fondamentale ignoranza dei meccanismi di base della partecipazione democratica.
Non si spiegano altrimenti le percentuali elevate di chi nei sondaggi si rifugia nel “Non risponde”.
Non capisco come non ci preoccupi del dato che segnalo ed ancor meno capisco le prime prese di posizione e dichiarazioni del neo-ministro dell’Istruzione che pure è segretaria di un movimento che fa del civismo la sua denominazione.
Insomma non solo si continua ad ignorare la necessità di ripristinare lo studio della Costituzione e del Diritto ma si continuano a propagandare soluzioni che, come nel caso dell’articolo di Filomena Zamboli, toccherebbero le corde dell’animo ma ignorando la necessità della conoscenza.
Decisamente strano destino per un sistema scolastico che si vorrebbe innovare per avvicinarlo maggiormente alla realtà.
Una realtà fatta solo da testimoni del fallimento dell’educazione al rispetto delle regole?
Un po’ poco mi pare e perciò ho provato a scrivere queste note.
Lavoro improbo ma necessario.
Almeno per chi come me crede che ripristinare lo studio delle regole serva e prima che i guasti siano irreparabili.