Dietro l’inquietante moltiplicarsi dei figli-Narciso illusi di poter fare “da sé” e a fronte delle difficoltà (a talvolta l’impotenza) dei genitori e degli insegnanti di rispondere “non si può”, il tema delle “regole educative” è tornato, dopo lunga eclissi, al centro di molteplici attenzioni.
Lo conferma l’uscita negli ultimi anni di numerosi saggi, alcuni di orientamento più specialistico e altri a impostazione più divulgativa. Basta citare, tra quelli a taglio pedagogico, i contributi di Bernard Bueb (Elogio della disciplina e Le nove regole della scuola), Luigi Pati e Lino Prenna (Ripensare l’autorità), Felice Nuvoli (L’autorità della libertà), Giuliano Minichiello (L’obbedienza); più in generale, quelli a lettura anche politica, di Maurizio Viroli (Italia dei doveri) e, in chiave psicoanalitica, di Massimo Recalcati (Cosa resta del padre, Il complesso di Telemaco) e Vittorino Andreoli, L’educazione (im)possibile.
Questi lavori, pur tra loro diversi come approccio e argomentazioni, convergono su una questione decisiva: la necessità di adulti autorevoli. Senza adulti capaci di essere tali non ci sono regole che funzionano. E senza il rispetto dei doveri e senza il confronto con i vincoli imposti dalla realtà – quella di tutti i giorni e non quella del sogno o dell’utopia o dei social network – non è possibile formare persone capaci di giudizio e disponibili a pagare i costi della convivenza che gravano su tutti.
Questa semplice constatazione è stata frantumata nell’ultimo mezzo secolo in seguito all’esasperata valorizzazione dell’autonomia personale fino al limite dell’autosufficienza. Questa tesi che si è affacciata prima nell’orizzonte della riflessione psicoanalitica, è poi calata, con la mediazione del marx-freudismo e con tutte le approssimazioni del caso, nella prassi quotidiana. La tesi del libertarismo contemporaneo si basa sulla convinzione secondo cui quanto più un soggetto cresce libero negli anni infantili e giovanili, tanto più sarà libero e consapevole in età adulta perché non avrà sperimentato durante la crescita la sudditanza a qualcuno o a qualcosa.
Tesi tanto assurda quanto difficile da smontare nella vita pratica, ma – diciamolo subito – nessuno immagina che sia possibile riportare l’orologio indietro.
Prima di inoltrarmi sul complesso terreno dei possibili interventi per immaginare un’educazione fatta anche di regole che sia oggi credibile e praticabile – dico credibile e praticabile perché è inutile costruire castelli fantastici che poi non reggono al minimo temporale – desidero richiamare in estrema sintesi come oggi in pedagogia sia generalmente intesa la nozione di libertà.
Questo passaggio decisivo nella vita di ciascuno di noi perché ci fa diventare adulti, viene immaginato come un percorso centrato sulla graduale capacità di scelta. Una libertà declinata, dunque, in senso critico e non, banalmente, soltanto come possibilità di “fare qualcosa”.
Non – in altre parole – una libertà nomade che non sceglie mai perché si avvita su se stessa nell’infinita sperimentazione di sé, ma una libertà che incontra il principio di responsabilità ed è dunque capace di scegliere e si decide a farlo secondo responsabilità. Ciò significa che si confronta con la realtà e misura le ricadute della propria azione.
Queste considerazioni possono sembrare teoriche e forse anche astratte a chi tutti i giorni ha a che fare con ragazzi che pensano che rientri nei loro diritti comportarsi come se non dovessero rendere conto di nulla e nessuno.
Bisogna inoltre riconoscere che i “no” sono difficili da pronunciare in una società dove tutto appare semplice e sembra lecito e dove soprattutto si direbbe che sia “saltata” ogni regola condivisa. Ma se pensiamo che qualche regola sia necessaria per far maturare la libertà nel senso che abbiamo detto sopra – e cioè una libertà capace di scegliere e non solo una libertà di fare – occorre attrezzarsi mentalmente per gestire le regole e, se del caso, avere la capacità e la forza di dire “no”.
Non ci sono ricette in grado di ripristinare il principio pedagogico delle regole. Per fortuna la realtà è forse meno permissiva di quanto non ci descrivano i giornali o i servizi televisivi perché ancora in tante famiglie prevale la pedagogia del buon senso e in moltissime scuole gli insegnanti sanno esercitare il loro giusto ruolo anche di educatori.
Posta questa premessa vorrei suggerire soltanto tre pensieri sull’agibilità educativa delle regole. La prima è questa: alle regole bisogna abituarsi fin da piccoli.
Spesso si pensa – erroneamente – che ai bambini sia concesso ciò che non sarà poi mai più loro permesso più avanti negli anni. Si tratta di un errore fatale. Le buone abitudini si apprendono presto e quelle abitudini apprese presto restano nel tempo, quasi entrano a far parte del Dna. Le buone abitudini non sono illiberali perché ci vincolano a delle regole: esse sono invece dei sostegni perché rappresentano un riferimento senza che ogni volta dobbiamo riprendere tutto daccapo.
La seconda raccomandazione è che la regola sia condivisa, sia sostenuta dal giusto sentimento emotivo-affettivo che esprime partecipazione, ma che rappresenti soprattutto un punto stabile dell’agire educativo. Non c’è nulla di più devastante che dare delle regole e poi smentirle o contraddirle. E allora è buona norma non fissare troppe regole: poche, ma buone e durature nel tempo.
Il terzo suggerimento si potrebbe definire il principio della reciprocità: le regole valgono per tutti, anche per i genitori e gli insegnanti. Le regole funzionano se in famiglia e a scuola queste sono previste per entrambe le parti e rispettate senza eccezioni. Chi ha compiti educativi ha il compito di essere una persona non solo significativa, ma anche credibile. E per essere credibili bisogna essere coerenti e riconoscere i vincoli imposti, per l’appunto, dalla regola della reciprocità.
Non basta trasmettere emozioni ai figli, occorre accompagnarli e sostenerli ad accettare la realtà. Solo chi congiunge nel suo essere adulto significati positivi e credibilità vissuta è un educatore efficace. Si tratta di una affermazione tanto scontata nella sua evidenza, quanto difficile da mettere in pratica.
È facile prevedere che il futuro riserverà ai ragazzi di oggi molte difficoltà, forse più di quante ha sperimentato chi adesso è adulto. Se non “alleniamo” i ragazzi ad accettare la realtà e, dunque, ad affrontare anche rinunce e frustrazioni compatibili con la loro età – le regole di oggi – ne faremo degli infelici domani.