Alzata la testa dall’ultima pagina di Fiabe per pensare. Proposte di racconto e ascolto, suggestivo saggio sul valore delle fiabe, scritto da Luigi Campagner (Lindau, 2015), posso vantare qualche ragione in più per apprezzare le fiabe di un tempo. Due motivi li avevo già e risalgono a quando avevo i figli piccoli. Primo: con un paio d’orchi e un pugno di fatine al capezzale del seggiolone, riuscivo sempre a far ingerire inimmaginabili mestolate di spinaci; nel tempo di mezza favola, anche le fibre più insapori svanivano come per incantesimo.
Seconda ragione: al confronto con tante madri che nelle fiabe risultano poco raccomandabili o son state sostituite da terribili matrigne, ho sempre fatto la mia degna figura (le fiabe forniscono termini di paragone assai “convenienti” per la maggioranza delle mamme).
Il saggio dello psicanalista — che da anni lavora con bambini ed educatori — mi ha fatto riscoprire il valore e la dignità delle fiabe, collegandole a temi di assoluta attualità. Strumenti di comunicazione adulto-fanciullo incredibilmente semplici, i racconti della tradizione si ripresentano con una chiarezza che al giorno d’oggi risulta addirittura trasgressiva. Già, man mano che leggevo, mi son resa conto che di questi tempi rispolverar favole è come passare dal videogame Fifa’14 al Subbuteo. E questo è il loro bello: la semplicità con cui si presentano (ben diversa dalla banalità). E’ un po’ come offrire ad un bambino un buon panino fatto di una rosetta al prosciutto tagliato fresco, al posto di un tiepido cheeseburger del McDrive. E il riferimento al cibo non è casuale. Invitare un bambino ad ascoltare una fiaba è proprio come chiamarlo ad un banchetto stuzzicante, tanto da farlo rimanere a bocca spalancata. In fondo, basta apparecchiare il divano con una coperta calda e condirlo con un morbido cuscino.
Campagner coglie bene il punto: la fiaba è un ponte privilegiato fra chi racconta e chi ascolta perché non si arroga la pretesa di fare altro se non raccontare. La fiaba non tira in ballo nessuna predica, la storia è storia. Nella favola di Hansel e Gretel non troveremo predicozzi sull’assenza del capofamiglia, però incapperemo in un padre a cui manca cibo e autorità. In Cappuccetto rosso, non leggeremo moniti sui pericoli di possibili abusi in famiglia, ma c’imbatteremo nel lupo camuffato da nonna. In un’altra famosa fiaba di Perrault, vengon risparmiate ramanzine sull’eredità più opportuna da lasciare ai figli, in cambio ci verrà chiesto di prendere sul serio un gatto, addirittura parlante e con tanto di stivali.
Fiabe per pensare è un testo che accompagna il lettore a scoprire — nelle storie della classicità — risvolti, paure e desideri che il più delle volte ci sfuggono, ma che tuttavia impattano oltre chi le ascolta, anche chi le racconta.
Io, ad esempio, ho scoperto di adorare la fiaba di Pollicino: quella in cui un bambino si ritrova da solo per il mondo dopo esser stato abbandonato dei genitori, ma nonostante questo se la cava comunque egregiamente. E’ un sollievo sapere di non dover esser genitori perfetti e che nonostante i “danni” che facciamo come educatori, i figli sono pieni di risorse con cui riescono a sfangarsela. Dopo aver letto il libro di Campagner, mi è venuta voglia di andare a ripescare il volume che una decina di anni fa tenevo a portata di mano all’ora dei pasti vicino al seggiolone sommerso di briciole.
Appena sotto la dedica, ho trovato scritto: “I bambini non ricorderanno se la casa era lustra e pulita, ma se leggevi loro le favole”.
Ripenso al guazzabuglio di quegli anni, incrocio le dita e mi auguro sia proprio vero.