È fin troppo noto l’aforisma di Marx, per cui la storia si ripete sempre due volte “la prima come tragedia, la seconda volta come farsa”, per doverlo commentare. È sufficiente ricordare che la celebre sentenza è una chiosa a Hegel (che aveva detto qualcosa di simile) inserita dal pensatore di Treviri all’inizio della sua opera su Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte. Marx aggiunge però anche qualcosa che suona curioso alle orecchie di chi dalla sua scrittura non si aspetta altro che materialismo e annullamento della storia nella dialettica economica. Egli dice che “gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione”.
Marx intende dire, all’incirca, che confrontandosi con il passato l’uomo prende a prestito nomi, parole d’ordine e costumi, con l’inevitabile conseguenza, appunto, di apparire prima tragico e poi comico: “Così Lutero si travestì da apostolo Paolo; la rivoluzione del 1789-1814 indossò successivamente i panni della Repubblica romana e dell’Impero romano; e la rivoluzione del 1848 non seppe fare di meglio che la parodia, ora del 1789, ora della tradizione rivoluzionaria del 1793-1795”.
Parafrasando Marx, e in un certo modo allontanandosene, bisogna osservare che l’imitazione del passato, così come la sovrapposizione alla storia presente di immagini tratte da periodi trascorsi che abbiamo interpretato in un certo modo, non solo è deleteria, ma addirittura pericolosa perché non ci permette di cogliere la novità dei tempi. Che per Marx risiedeva nell’avvenire delle lotte operaie; per altri nella imprevedibilità assoluta con cui il tempo si presenta alla coscienza dell’uomo. La storia, per andare oltre Marx, non è prodotto dei “soli” uomini, ma di una combinazione di continuità e improvvise discontinuità, che ci fanno percepire la nostra inadeguatezza a volerla rinchiudere entro schemi ripetitivi.
Insegnare storia ai giovani significa anche questo: aiutarli a capire ciò che accade di nuovo rispetto a ciò che già crediamo di sapere. Due esempi per ampliare questo discorso.
Un primo nodo di questioni è un classico della storiografia, e riguarda la crisi economica del Novecento, che con andamento ciclico ha colpito in vario modo ora l’uno ora l’altro paese del globo, finendo per coinvolgere l’intero sistema mondiale: 1929; 1970; 2008.
Nel 1929 la crisi arrivò all’improvviso ed esplose nel tempio della finanza americana, la borsa di Wall Street, che deteneva gran parte del mercato azionario di tutto il paese. Inaspettatamente, a iniziare dal “giovedì nero”, il 24 ottobre 1929, si verificò un flusso di vendite al ribasso di quantità massicce di titoli, che non si arrestarono nei giorni successivi. Il “martedì nero”, 29 ottobre, fu terrificante, tanto che, come dicono le cronache, 16 milioni di azioni furono vendute ad un valore bassissimo, determinando la perdita secca di interi capitali: una catastrofe.
L’America, che aveva costruito il suo benessere sulla fragile politica del “credito facile”, piombò nella depressione degli anni Trenta, dalla quale si risollevò con il New Deal di Franklin Delano Roosevelt che riuscì a coniugare la revisione del modello americano di vita, troppo dispendioso, con il rilancio dello Stato regolatore e imprenditore. Roosevelt superò mille opposizioni e fu rieletto nel 1936, dimostrando di sapere adattare alle circostanze un particolare tipo di welfare state. Il ruolo attivo dello Stato, anche alla luce delle teorie keynesiane, fu efficace per il modo in cui riuscì a tenere insieme centralizzazione del sistema e libertà economiche.
Negli anni Settanta del Novecento lo Stato sociale fece progressi e in Occidente le strutture previdenziali, assicurative e sanitarie cominciarono a proteggere i cittadini lavoratori. Da questo punto di vista, la crisi economica fu uno shock: aumentò il prezzo del petrolio e in Italia la domenica si andò a piedi, senza automobili. Le misure adottate in America da Reagan e in Gran Bretagna dalla Thatcher furono drastiche: si puntò alla liberalizzazione del mercato a scapito del controllo statale, insomma si tagliò il welfare state e ci si scontrò con le organizzazioni sindacali. In questo caso l’austerità ha salvato l’economia, mentre negli anni Trenta l’avrebbe distrutta definitivamente.
Ai nostri giorni, infine, sembrano non bastare più né lo Stato sociale, né l’austerity. Il motivo? La crisi che di nuovo picchia dal 2008 non è solo di tipo politico, economico o del welfare, ma anche di valori prettamente umani. Essa si presenta “travestita” da crisi del ’29 o degli anni 70, ma ha coperto di ridicolo gli interpreti dalla vista corta. Il fattore di novità che si è introdotto nel mondo successivo alla caduta del muro di Berlino si chiama globalizzazione, che comporta la ridefinizione degli scopi dell’economia, del profitto, delle forme del lavoro e degli investimenti. Le ragioni dell’economia non si trovano nei meccanismi della finanza, ma sono parte integrante dei criteri ideali con cui è ridisegnata la convivenza sociale, compreso tutto ciò che riguarda la categoria della diversità (flussi di immigrati provenienti da altri paesi, capitale umano da valorizzare, innovazione e concorrenzialità tra mercati). Quella del 2008, nella quale siamo ancora impantanati, è una crisi che si rispecchia solo in parte nelle precedenti e per essere interpretata richiede un paradigma specifico, dove appunto il fattore umano risulta determinante, sia per comprenderne le cause, sia le possibili vie d’uscita.
L’altro esempio, molto più vicino ai giorni nostri, riguarda il drammatico stato di conflitto tra Russia e Ucraina, che minaccia di riaccendere una guerra nel cuore dell’Europa, al momento rimandata dalla debolissima tregua in atto.
Anche in questo caso sembrano riprodursi vecchi schemi che, alla luce di ciò che è accaduto ai popoli russo e ucraino nella seconda metà del Novecento, sembrano del tutto falsificanti. Ricordiamo che dopo le manifestazioni filo-occidentali di piazza Majdan, a Kiev, del gennaio-febbraio 2014, che hanno portato alla fuga del presidente Yanukovich, la Russia di Putin ha risposto con l’annessione della Crimea (marzo 2014). La politica imperialista dell’attuale presidente della Federazione Russa è basata sulla critica di quanto accadde nel 1954, anno in cui il leader sovietico Nikita Khrushev, qualcuno dice sotto i fumi dell’alcol, regalò la Crimea all’Ucraina. Putin accusa oggi la Nato di nazifascismo per il suo tentativo di approfittare della crisi ucraina per inglobare, almeno economicamente, il grande paese che divenne indipendente nel 1991. Sul versante Nato, funziona lo schema opposto, e pertanto Obama ha promesso armi a Kiev se la soluzione diplomatica dovesse fallire. Da parte sua, il leader inglese Cameron ha paragonato i negoziati di Minsk tra Germania, Francia e Russia agli accordi di Monaco del 1938 che concessero a Hitler di prendersi i Sudeti come premesse per l’attacco alla Polonia. In questo caso, Hitler sarebbe Putin.
Hitler, Stalin, Urss? Siamo ancora a quel punto? La storia non si ripete e per non cadere nella farsa dovremmo ricordare che il crollo del comunismo sovietico e dei successivi regimi ad esso legati fu dovuto a tensioni che hanno avuto come protagonisti i popoli e il loro desiderio di libertà religiosa, sociale, economica. Il fattore di novità di cui tenere conto, nell’interpretazione della storia attuale, è proprio questo: i popoli si sono mossi, ma è come se questo non fosse ancora sufficiente. Il clima di Guerra Fredda che si è tornati a respirare, almeno nella lettura degli eventi da una parte e dall’altra, mostra che le contrapposizioni sono dure a morire. Ma la Russia non è ormai integrata nella società internazionale di cui fa parte? E l’Occidente vuole suicidarsi andandole contro? I paradigmi devono cambiare, anche quelli che usiamo per tentare di capire. Di fatto oggi l’Ucraina unisce il passato e il futuro di questa parte di mondo in cui siamo, fatta di popoli che hanno culture ed entità diverse, ma un’unica matrice di fondo. Guardiamola e aiutiamo i più giovani a guardarla con il fiato sospeso, come una questione che ci interessa profondamente.