SCUOLA/ Il “coraggio” dei pinguini e il mistero del linguaggio

- Fabrizio Foschi

L'incontro al Meeting di Rimini sul tema "Stupirsi di fatti semplici" con Noam Chomsky e Andrea Moro e dedicato al alinguaggio, può suggerire molto ai docenti. FABRIZIO FOSCHI

meeting_rimini_2015 Infophoto

È bello uscire dall’incontro del Meeting con Noam Chomsky (in collegamento da Boston) e Andrea Moro, neurolinguista, sul linguaggio dell’uomo e i limiti della comprensione terremotati nelle proprie ideologiche presunzioni relative al modo di interloquire con gli altri, con sé stessi, con i propri alunni. 

Per usare una metafora, coniata proprio in queste giornate, dobbiamo uscire dal nostro “pinguinismo” per aprirci alla realtà per come si mostra, non per come pensiamo sia. Cos’è il “pinguinismo”? Si licet magna componere parvis, si tratta di un neologismo formulato dalla neo-presidente Rai Monica Maggioni durante il dialogo tra Julián Carrón e Joseph Weiler, per indicare una sequela passiva, un modo di andare dietro privo di creatività. La Maggioni faceva riferimento, per introdurre una fase del dibattito, ad una foto di Salgado in cui si vede una fila di pinguini che, uno dietro l’altro, si gettano nelle acque turbinose dell’Antartide. Da un punto di vista naturalistico l’immagine è simpatica perché indicativa di un coraggio istintivo che appartiene a questa singolare specie di uccelli: nessuno di loro rifiuta il salto tra le onde. Dal punto di vista semantico l’immagine è inquietante perché, trasferita metaforicamente sul piano dell’umanità, può indicare un modo di andare dietro al primo della fila passivo, abulico, rassegnato.

Ne facciamo subito uso per applicarlo ad un modo di fare scuola in cui si pretende dagli allievi una sequela linguistica passiva e si interloquisce con loro in modo altrettanto prevedibile, ci si adegua alla fila, a fare più o meno quello che fanno tutti (le stesse lezioni di sempre, la stessa musica) senza farsi mettere in discussione dalla realtà. Invece il linguaggio è un mistero che è più grande di noi che crediamo di possederlo. Soprattutto — e questo è davvero sconvolgente per chi insegna —, a pensarci bene non è solo un sistema di comunicazione, non è fatto prevalentemente per l’esternalizzazione (Chomsky). I linguaggi infatti possono essere spiegati, ma nella loro genesi (stiamo schematizzando forse banalmente anni e anni di ricerche e di studi complessi) rimangono un mistero. 

Mistero perché misterioso è il burattinaio che muove i fili, è stato più volte detto; misterioso, aggiungiamo noi, perché è un profondo mistero la persona che parla e cerca con il linguaggio un rapporto. C’è uno iato profondo tra gli strumenti linguistici finiti e le infinite possibilità espressive. È importante allora osservare nei bambini e negli alunni, aggiungiamo noi profani, come nasce il linguaggio, cioè non solo come si realizza nella perfezione morfologica e sintattica, ma come si organizza creativamente per tendere a quella perfezione senza la quale l’individuo non entra in contatto con il contesto. 

Nelle parole provocanti di Andrea Moro, discepolo di Chomsky, sobbalziamo per la scoperta, che lui ci comunica, del suono del pensiero silente. I nostri cervelli lavorano e pensano e parlano anche stando zitti. L’illustre studioso documenta questa sua affermazione con una frase di sant’Agostino riferita al maestro sant’Ambrogio: “Il suo cuore percepiva il significato, ma la sua voce era silente e la sua lingua ferma”. Da qui, è stato spiegato, la scoperta che anche in assenza di suoni il cervello emette onde acustiche; senza il suono i neuroni si parlano anche nel completo silenzio. 

Da inesperti, ma attenti alle dinamiche dei rapporti in classe, possiamo tradurre così: c’è un linguaggio dell’interiorità che caratterizza noi e i nostri ragazzi, non meno importante del linguaggio dell’esteriorità. Proviamo a metterci in ascolto anche dei loro silenzi, delle loro pause, delle loro afasie. Ci parlano talvolta solo con gli occhi, con gli sguardi, con le posture talvolta apparentemente sgarbate e indisponenti. Però ci stanno parlando perché i loro cervellini sono in movimento. Non scoraggiamoci, dunque, e magari cominciamo ad ascoltare noi stessi. Il nostro io non ci deluderà.





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