Il grande concorsone alla fine è arrivato. Altri 63mila docenti (dopo i 100mila di autunno scorso) saranno assunti dallo Stato e, finalmente, lasceranno l’inflazionata e sindacalese definizione di “precari” per diventare “dipendenti pubblici” (non certo per diventare “professori”, qualifica che non può dipendere da alcun concorso di Stato e professione che già esercitano anche senza stabilità contrattuale). Nel nostro Paese saranno certamente dei dipendenti pubblici di serie B per quanto concerne il trattamento salariale e l’organizzazione del lavoro; in tutto e per tutto pubblici, invece, a riguardo della garanzia occupazionale.
Checché ne dica il Governo, anche dopo il Jobs Act (che, norme alla mano, dovrebbe applicarsi pure alla pubblica amministrazione, non essendo prevista alcuna eccezione in questo senso nel decreto che ha regolato il famoso contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti) permane un’ingiustificata e anacronistica disparità di trattamento tra i dipendenti privati e quelli pubblici. È un problema ben noto, ma particolarmente evidente e ingombrante in una stagione che, a parole, dovrebbe essere quella del superamento dei dualismi nel mercato del lavoro.
Le discriminazioni sono invece ancora tante: si pensi, appunto, al diverso trattamento riservato in materia di licenziamento tra nuovi assunti e “vecchi” assunti; ai generosi trattamenti di politica passiva ricevuti dalle generazioni precedenti e impensabili per quelle future (molto noto il caso dei 22 anni di cassa integrazione dei dipendenti delle Case di Cura Riunite di Bari…); ai differenti mercati del lavoro di Nord e Sud Italia; al divario tra trattamento pensionistico retributivo e contributivo, nel 1995 riservato solo ai giovani e a tutti solo con la legge Fornero, quella che va così di moda criticare, ma che è la più equa riforma pensionistica, in termini generazionali, degli ultimi decenni.
Il riferimento al confuso diritto previdenziale italiano permette una considerazione assolutamente laterale rispetto alle problematiche della scuola, ma significativa. I 63mila docenti che saranno assunti nelle prossime settimane hanno tante sfortune, spesso discusse sui media e in dottrina. Non si pongono però il problema (né avrebbe senso che lo facessero) del futuro pensionistico. Ovvero, non partecipano del dibattito che sta agitando gli addetti ai lavori nelle ultime settimane, fomentato dalla caotica informazione sulle cosiddette buste arancioni e ingarbugliato dagli interessi politici e sindacali che non permettono una comunicazione trasparente delle regole pensionistiche e del loro effetto in particolare sui lavoratori più giovani.
La grande incertezza che permea le stime sugli assegni che percepiranno i pensionati del futuro non è causata, come spesso è recitato con superficialità, dai versamenti in gestione separata, la cui aliquota va parificandosi a quella ordinaria, bensì dalla sempre più frequente discontinuità lavorativa subita da un giovane che entra oggi nel mercato del lavoro. L’irregolare alternarsi di periodi di lavoro e di non lavoro e l’impossibilità di coprire, negli anni garantiti da contratti, i “buchi” di versamento degli anni scoperti fa saltare le stime lineari e determina potenziali situazioni di debolezza economica nell’avvenire.
A differenza del passato, quella descritta non è una situazione eccezionale, ma una esperienza condivisa da centinaia di migliaia di giovani, ancor più dopo le nuove regole del lavoro che, superando il regime di cosiddetta job property, rendono oggettivamente più semplice il licenziamento. Non è un’ingiustizia, né un processo causato dalle leggi, ma l’evoluzione in atto in un mercato del lavoro sempre più liquido, mutevole e competitivo, nel quale le proprie competenze, conoscenze e abilità sono una forma di tutela molto più efficace dell’articolo 18.
Di questa grande trasformazione il settore pubblico tutto, e quindi anche la scuola, non si cura, protetto da un apparato normativo il cui spessore e la cui pervasività contemporaneamente sono oggetto di critica continua, ma anche muro di protezione dai pericoli del mercato del lavoro privato. Hanno ragione coloro che chiedono nuove leggi e uno Stato più leggero, anche nelle procedure di selezione dei docenti (chiamata diretta?). Non si può avere, però, la botte piena e la moglie ubriaca: questi stessi osservatori si rendano conto, quindi, che la conseguenza del superamento delle barocche norme del nostro diritto del lavoro pubblico è la deriva improvvisa di milioni di lavoratori “sicuri” nel mare in tempesta dei mercati del lavoro, dove non ci sono concorsi che garantiscono il posto a vita, anche se tardivi e male organizzati.
@EMassagli