“Esame di stato conclusivo del primo ciclo di istruzione”: si chiama così, oggi, quello che un tempo veniva più semplicemente definito “esame di licenza media”. Ma merita veramente tale qualifica una prova come quella che si è consumata nei giorni scorsi nelle scuole statali e paritarie del territorio nazionale?
Io, che me la sto “godendo” in prima persona, nutro qualche dubbio… Di buone intenzioni, recitava un vecchio adagio, è lastricato l’inferno! E nella fitta selva di circolari, decreti, articoli, adempimenti, regolamenti, commi che la normativa ministeriale ha prodotto negli ultimi anni proprio in merito a tale esame, di buone intenzioni, ce ne sono da vendere.
Va detto che in un terreno “minato” come questo, a farla da padrone sono, alla fine, burocrazia e formalismo, nemici storici di qualsiasi percorso educativo che abbia la pretesa di chiamarsi tale.
La prima tappa che del formalismo documenta il nefando influsso è quella che va sotto il nome di scrutinio: scrutinio di fine anno dal cui esito deve scaturire l’ammissione o la non ammissione dell’alunno alla prova d’esame. L’orientamento — anche della normativa beninteso — è che, salvo eccezioni, tale ammissione vada quanto meno favorita. Siamo o non siamo nella scuola dell’obbligo?
E qui cominciano i guai. Come “traghettare” infatti certi studenti che: non hanno ottenuto la sufficienza in tutte le discipline; hanno collezionato un numero troppo elevato di assenze rispetto all’obbligo di frequenza stabilito; appartengono a quelli che, in Italia da poco più di un anno, non padroneggiano sufficientemente la lingua per poter sostenere una prova d’esame?
I problemi insomma sono tanti, ma tanta è anche la confusione con la quale troppo spesso li si affronta: vero è che spesso i criteri da considerare per un’equa valutazione, ben poco hanno in comune con lo specifico della funzione docente che mai deve sottrarsi al suo peculiare compito educativo. Di frequente infatti certi prof finiscono con l’improvvisarsi psicologi e sociologi tanto da far pesare di più, sui dati oggettivi del percorso scolastico, il forte disagio sociale che affligge numerosi tra gli alunni frequentanti. Così i cinque in italiano, in matematica, in lingua, si trasformano magicamente in sufficienze la cui “modifica” viene peraltro segnalata con ligia precisione nel verbale di ammissione all’esame.
Ma il vero banco di prova, per l’esame di Stato, è il suo “incipit” che si consuma nell’assemblea plenaria: è nel corso di questo appuntamento, presieduto da un commissario esterno alla scuola, che molti nodi vengono al pettine: dubbi, incertezze, interrogativi si alternano a insofferenze e mugugni, come a segnalare un disagio diffuso che serpeggia tra i giovani professori, nuovi del mestiere e i vecchi docenti ormai… “saputi”.
Alle indicazioni di carattere permanente contenute nella circolare ministeriale del maggio 2012 sull’esame di stato, si affiancano guide aggiornate circa le norme da seguire per i candidati Bes (bisogni educativi speciali) e per i Dsa (disturbi specifici dell’apprendimento) il cui numero, negli ultimi anni, è andato crescendo esponenzialmente. Si invoca allora la circolare del maggio 2015 che raccomanda “di tenere in debito conto le specifiche situazioni soggettive, adeguatamente certificate […] con le proposte inerenti alle modalità di conduzione delle prove d’esame”. Se infatti Bes e Dsa non hanno diritto a prove differenziate, “è possibile tuttavia calibrare le prove sulle caratteristiche degli allievi, utilizzando adeguati strumenti compensativi”. Seguono poi indicazioni, sempre relative a queste “categorie” di alunni, riguardanti le lingue straniere e il loro eventuale esonero, l’utilizzo di mappe concettuali, l’uso di supporti informatici… Ma il corpo docente e i singoli consigli di classe hanno operato realmente in questa direzione? Corrispondono ai Piani educativi individualizzati e ai Piani didattici personalizzati, effettivi percorsi educativi che consentano a questi alunni “svantaggiati” di affrontare la prova d’esame con la serenità e la dignità cui la loro condizione dà pieno diritto e la normativa in uso garanzia e tutela?
In questa prospettiva, ma non solo, si presenta particolarmente impegnativa la famigerata Prova Nazionale Invalsi: una sorta di spauracchio più per i docenti che per gli stessi alunni, forse perché i quesiti proposti (italiano e matematica) svelano, piuttosto crudamente, la scarsa adeguatezza dei programmi svolti durante il triennio.
Analoga riflessione potrebbe valere per le prove di lingua che si attestano ancora sui quesiti di comprensione di un brano e sulla stesura della lettera, senza conformarsi agli standard europei come da tempo avviene per le certificazioni internazionali (cfr. Dele per la lingua spagnola).
Ma consentitemi ancora due parole sul pomeriggio che segue la fatidica mattinata della prova Invalsi: le postazioni dei computer vengono occupate full time da tutti i professori coinvolti nella correzione con l’utilizzo delle mascherine pervenute alle segreterie di ogni scuola direttamente dal ministero. Nessuno abbandona il campo impegnato com’è in questa epica maratona di… mutuo soccorso. E tuttavia, a fronte di una correzione ormai digitalizzata, sopravvive ancora, in molte scuole, il retaggio del cartaceo: mi riferisco alla compilazione dei cosiddetti “statini” da vergare rigorosamente a penna nera in linea con la tradizione degli antichi monaci amanuensi.
E i colloqui pluridisciplinari, quel logorante rituale di quelli che, nel secolo scorso, si chiamavano “gli orali”? Tesine, PowerPoint, mappe concettuali sono, in realtà, i diabolici strumenti per mascherare l’abissale ignoranza che la gran parte dei nostri studenti ha accumulato negli otto anni di scuola appena trascorsi.
Sia ben chiaro: lo dico con rammarico e non con cinismo, ma il rischio di volare basso ci assedia da ogni parte. Chiedere perciò a questi ragazzi sempre di meno, è condannarli, ahimè, ad una tacita e inconsapevole rassegnazione che fa a pugni con la grande sfida di chi ci propone invece di vivere all’altezza dei nostri desideri, primo fra tutti quello della felicità.