Qualche mese fa una collega di storia mi ha riferito più volte di alcuni dibattiti nati durante le sue ore in una prima liceo. Siccome anch’io, nelle mie ore di italiano, notavo con piacere una certa vivacità in quella classe, ci siamo messi a ragionare su come avremmo potuto valorizzare questa propensione dei ragazzi a discutere.
A me, francamente, la parola “dibattito” non piace: se dibattere significa scambiarsi opinioni contrastanti, per poi lasciare in sospeso il giudizio su una questione e fare così un esercizio politicamente corretto, non lo ritengo una pratica necessaria a scuola; per questo ci sono le più varie trasmissioni e blog. Più stimolante trovo la parola “argomentare”, che è appunto quello su cui ho lavorato per un certo tempo con la nostra classe. Un mio maestro in questo è Manzoni, che nel capitolo XXXI dei Promessi sposi se ne esce con un’affermazione perfetta: “Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, prima di parlare”.
Osservare, ascoltare, paragonare: ecco gli ingredienti per preparare un dibattito sensato, ossia un dialogo, un confronto di ragioni fondate. Siccome quella prima liceo (ticinese) stava studiando l’arrivo degli europei in America, io e la mia collega abbiamo imbastito un lavoro a gruppi proponendo a ciascuno di essi l’analisi guidata di un documento dell’epoca: una lettera di Cortéz, una pagina del diario di Colombo, un estratto della Relazione di padre Las Casas, un passo di Sépulveda, e un’interpretazione storiografica novecentesca di Todorov (si tratta di materiale che abbiamo trovato in un buon manuale di alcuni anni fa). Il grande tema comune era l’incontro tra europei e indios, le cause della vittoria dei conquistadores, e la stima, oppure il disprezzo, che gli europei avevano dell’altra razza. Ciascun gruppo ha avuto a disposizione due ore per leggere il proprio testo e iniziare a rispondere alle domande, appositamente preparate; la settimana successiva ogni gruppo ha presentato il proprio brano; infine, due settimane dopo, ciascuno studente ha consegnato alla prof. di storia una relazione che tenesse conto di tutte le presentazioni, e che indicasse anche la propria opinione motivata sulle tesi contenute in tutti i brani distribuiti.
L’esperimento ha funzionato a meraviglia, e vorrei dire in breve perché. Innanzitutto, due insegnanti che entrano insieme in aula e propongono un percorso concordato, motivandolo agli occhi della classe, danno un segno di unità, e offrono agli studenti un concreto attestato di stima della loro intelligenza: c’è da mettersi a fare qualcosa di nuovo, perché ne siete capaci; ci aspettiamo da voi che produciate un lavoro di qualità, e sappiamo che ne avete i mezzi!
Certo, non occorre dirlo esplicitamente, ma chi vuole può leggerlo tra le righe. In secondo luogo, la credibilità degli insegnanti sta anche nella cura con la quale il lavoro è impostato: indicazioni chiare e materiale preparato per ciascuno. Soprattutto, poi, è vincente il criterio adottato: scopo ultimo del lavoro era imparare un poco a pensare, osservando, ascoltando gli altri, e paragonandosi con loro. Le poche righe di Manzoni erano l’intestazione del foglio distribuito a tutti, e abbiamo iniziato il lavoro proprio leggendole e commentandole.
Un percorso didattico così mi ha aiutato a capire ancora meglio che cosa significa interdisciplinarità, che non è lo sforzo di accatastare discipline per essere alla moda — sfogliando manuali di storia e italiano, delle medie e del liceo, mi sembra che una mania del link con altre materie si sia impossessata dell’editoria scolastica; alcuni libri assomigliano a un videogioco, pieno di immagini, colori, riquadri, rimandi, schemini e domandine… Sembra spesso scomparsa l’esposizione, lucida e distesa, di un argomento, quasi che la cosa in sé fosse ormai riprovevole.
Al contrario, il legame sano tra le discipline si dà quando esiste un criterio unificante per studiarle; quando ci si accorge che il modo in cui si ragiona nell’una può aiutare a comprendere anche l’altra. Solo a questo punto il possibile nesso specifico tra due discipline — il “contenuto” comune — diventa realmente istruttivo per un ragazzo. E allora scopriamo che Las Casas argomenta che gli indios sono uomini come noi, mentre Sépulveda sostiene che sono peggio delle bestie: entrambi usano tesi, argomenti ed esempi, proprio come si cerca di fare in un tema in classe. Evviva, allora, l’accostamento di discipline e materie, quando questo si fonda su un metodo comune: osservare, ascoltare, paragonare; da qui possono di certo nascere nuove scoperte, per docenti e studenti.