SCUOLA/ Quali sono i veri effetti della cattiva didattica?

- Marina Minoli, Michele Mazzanti

Esiste da anni la convinzione nelle realtà scolastiche italiane che la capacità didattica dei docenti non sia importante. Un assunto che la ricerca smentisce. MARINA MINOLI, MICHELE MAZZANTI

scuola_studenti_esame6R439 LaPresse

Esiste da anni la convinzione nelle realtà scolastiche italiane che la capacità didattica dei docenti non sia importante. Nella quotidianità degli insegnanti sono spesso emerse evidenze di tacita accettazione della marginale considerazione delle lezioni che uniscono “rigore e passione educativa” all’impegno per l’innovazione.

Carenze che sono state purtroppo registrate non solo nel mondo della nostra scuola media e superiore, ma anche in parte del mondo accademico italiano, come emerge nel rapporto della Fondazione Agnelli e Federazione italiana editori 2015/2016 “La didattica in università: una ricerca nelle differenti discipline. Analisi delle modalità didattiche, degli strumenti per la verifica degli apprendimenti e dello studio individuale”. 

Questa ricerca ha esplorato la didattica nel contesto universitario italiano evidenziando docenti universitari nel complesso consapevoli dell’importanza dei metodi didattici. Secondo questo rapporto mancherebbe però, nella quasi totalità dei docenti, adeguata consapevolezza delle modalità con le quali il proprio insegnamento possa contribuire alla riuscita degli studenti nell’intero corso di studi accademici, costruendo saperi integrati. Sembrerebbe inoltre scarsa la disponibilità a confronti e scambi di esperienze didattiche tra accademici, approcci che da qualche anno si cerca di promuovere tra docenti delle scuole secondarie. Docenti universitari, dunque, coinvolti in modo prioritario nelle attività di ricerca; però marginalizzando la cura dell’insegnamento. Risulterebbe una diffusa tendenza alla conservazione della modalità organizzativa delle lezioni in contesti che non incentivano l’innovazione didattica. 

Un indicatore sull’efficacia delle azioni didattiche è stato inserito anche nelle valutazioni del nuovo ranking delle migliori università italiane, pubblicato nei primi giorni del 2017 dal Sole 24 Ore. Il problema nelle nostre accademie è il venire meno del loro scopo principale che è quello della formazione di quadri intermedi e dei dirigenti. Il sistema universitario lasciato a se stesso si è infatti dimensionato alle singole esigenze di ateneo o dei singoli docenti. Nel settore scientifico, ad esempio, non esistendo carriere parallele, i nostri migliori atenei hanno privilegiato l’obiettivo di un’eccellente ricerca scientifica rispetto alla formazione di eccellenti ricercatori. 

E’ anche vero che per fare una buona ricerca scientifica occorre un eccellente settore di ricerca (un po’ come per formare ottimi avvocati servono ottimi studi legali). Ma il problema riguarda il soggetto: nei nostri atenei il soggetto è diventato il docente ed invece dovrebbe essere lo studente. Sarebbe necessaria dunque una riprogettazione dei ruoli nei nostri sistemi formativi, tenendo conto che plasmare i ricercatori di domani parte necessariamente dalle scuole superiori. Non è una questione di nozioni ma di logica del pensiero, di metodo con il quale vengono affrontate le sfide. 

Perché ciò accada occorre un piano strategico che coinvolga in prima persona i docenti che si occupano della formazione e che sono necessariamente sia quelli universitari che quelli delle scuole superiori. Più che una fisima intellettuale la centralità della didattica è diventata un’esigenza. 

Al momento, alla fine del sistema formativo, nella maggior parte dei casi non troviamo dei quadri con capacità progettuali. Di questo ce ne siamo resi conto come operatori del settore, se ne sono resi conto i settori pubblici e privati produttivi del paese e se ne ha anche piena coscienza anche a livello ministeriale. In questo periodo sembra però che la didattica nella scuola catalizzi l’attenzione da più parti; forse che sia l’inizio di un necessario cambiamento, o è solo apparenza?  

Esiste un generale ritorno di interesse non solo a “cosa si insegna” a scuola, ma a “come si insegna”. Possiamo considerare questa acquisita consapevolezza solo come un primo passo in avanti nella professionalità docente, coltivando però la speranza che si possa attivare un reale ripensamento ragionato e coordinato dell’intero percorso formativo. Tutto il mondo scolastico, dalla scuola media e superiore sino all’università, avrebbe la necessità di un rinnovamento di mentalità nel progettare i propri insegnamenti, soprattutto della volontà di coltivare il gusto della ricerca didattica. Apprendimenti orientati anche alla promozione delle “non competence skills”, competenze trasversali non associate a soli contenuti, integrate nella vita dello studente e quindi fondamentali per armonico sviluppo della personalità. 

Si riflette sull’effettiva utilità di un cambiamento nella scuola senza successivo riscontro nelle modalità di lavoro didattico dei percorsi di studi del mondo universitario, attualmente poco orientato a prevedere collaborazioni che pongano al centro una formazione dello studente adatta ai tempi. Se nella scuola cominciano a nascere “nuclei formativi” per nuovi approcci educativi nell’insegnamento, maturando sensibilità alla volontà di progressivo cambiamento, l’università dovrebbe poi accogliere in continuità operativa studenti così formati. Non avrebbe senso una netta separazione nelle modalità di lavoro; impostazioni improntate ad innovazione didattica seguite nel mondo universitario da proposte di studio caratterizzate da conservatorismi che guidano soprattutto a superare tanti esami tra loro scollegati, in funzione prevalente di voti od accumulo crediti.

Ci si interroga quindi sul ruolo di una “didattica educativa” per formare giovani con menti pensanti, orientati alla capacità di ragionare ed affrontare problemi complessi delle differenti aree disciplinari. Pensiamo a scuole ed università come “palestre formative”, dove essere docente adeguato all’evoluzione dei tempi, alla  ricerca di metodi e strategie comunicative per proporre contenuti in modo ragionato dovrebbe essere obiettivo comune. Poco serve infatti l’oggettivo riscontro delle carenze culturali dei giovani, in parte probabilmente scontato esito finale derivato dal proporre saperi non realmente “vivi” per i nostri studenti, che appaiono dunque più distratti, spesso non stupiti e coinvolti da ciò che si propone loro. 

E’ riconosciuto da più parti a livello formativo internazionale: il diffuso utilizzo di valutazioni asettiche basate solo sulle “cognitive skills”, che non mettono al centro del percorso formativo la persona, trascurano aspetti relativi all’esperienza ed alla promozione di metodo, elementi importanti per motivare realmente al gusto per la conoscenza.  

E’ comunque difficile un’analisi esauriente, un ripensamento sulle azioni didattiche utile per attivare sensibilizzazione e coinvolgimento di  tutti gli attori del processo formativo. A più livelli si è in modo progressivo snaturato il ruolo dell’essere docente, inteso come professore di “significato” per i propri studenti. C’è bisogno di professionisti che non privilegiano ripetizioni di contenuti disciplinari in modo automatico ed uguale anno dopo anno, ma che umanizzano ed interpretano anche nuovi saperi senza limitarsi a proporre meri riferimenti allo studio di “sicuri” libri di testo. 

Per questo riteniamo necessaria una riflessione anche sulla complessa macchina della  formazione docenti che si sta avviando. Probabilmente, se non ideata e coordinata da menti sapienti e colte, la formazione rischia di trasformarsi in ulteriore dovuto atto burocratico. 

Domanda che lasciamo dunque aperta è se le scuole, grazie ad una ricerca didattica che coinvolga anche centri universitari, possano diventare luoghi fulcro per avviare processi di innovazione formativa. Docenti-ricercatori delle scuole con intenso vissuto didattico potrebbero proporre utili elaborazioni didattiche e comunicative per nuovi percorsi, anche per “saperi orientativi” a scelte di studio e professionali. Gli studenti appaiono sempre più disorientati di fronte a decisioni importanti per la loro vita; spesso tendono a trascurare scelte di studio in alcune facoltà universitarie che rischiano così un impoverimento sempre maggiore di menti in aree dei saperi strategiche. E’ forse possibile tentare di limitare queste tendenze superando la diffusa convinzione che l’orientamento scolastico sia  soprattutto partecipazione ad eventi, coinvolgimenti legati prevalentemente all’immagine più che a contenuti di priorità formativa? Nonostante ciò che spesso si ritiene, gli studenti sanno comprendere ed anche apprezzare la differenza delle proposte, soprattutto se non omologate a procedure standardizzate.





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