Non è facile dopo una settimana di parole, di luoghi comuni e di strumentalizzazioni provare a riprendere l’unico filo davvero interessante, quello del dialogo con voi, ragazzi. In questi otto giorni gli adulti, io stesso, abbiamo parlato di voi tante volte e in mille occasioni. Lo abbiamo fatto perché la vostra esistenza, il vostro bene, ci interrogano, ci inquietano e, alcune volte, ci tormentano. Voi siete lo sguardo dove tutte le nostre ragioni crollano, voi siete la sfida che con le sue azioni inattese confonde le nostre certezze e i nostri pensieri. E allora, dopo questa settimana, forse è il momento di rivolgerci a voi, non come ci si rivolge a dei bambini, ma come si parla ad uno a cui si vuole bene, con cui probabilmente molto si è scherzato e poco si è detto.
Per questo non è possibile cominciare a parlarvi se non partendo dalla domanda più difficile, più dura: voi, tu, Angelo, Chiara, Alberto, Mirko, cosa avreste fatto al posto di Giovanni? Come vi sareste comportati?
Lo so che è dura pensarci, ma non porvi questa domanda significherebbe ignorare il fatto che — al posto di Giovanni — avrebbe davvero potuto esserci chiunque di voi. Non è un mistero, infatti, che la cannabis, il fumo, il sesso, i soldi, l’alcool e il potere siano, anche per voi, il modo più facile per rispondere a questa vita che sembra non avere senso, che sembra averci tradito, che ci ha promesso tanto e poi, alla fine, ci ha dato sempre poco. Il vuoto, questo vuoto che avanza dentro di noi e attraverso le nostre giornate, va fermato. A questo vuoto non possiamo reggere. Di fronte a questo vuoto non possiamo passare la vita a sentirci in colpa pensando che esso dipenda da noi, dal modo con cui abbiamo trattato nostra madre, nostro padre, la fiducia di chi ci ha voluto bene. Lo vediamo quando siamo soli, quando siamo in compagnia, quando baciamo o esultiamo, quando piangiamo o ridiamo: nel vuoto non si può vivere.
Per questo, allora, io mi chiedo: è proprio necessario stravolgersi per stare bene? Lo chiedo a voi, ma lo chiedo anche ai venticinquenni, ai quarantenni… davvero per avere un po’ di pace bisogna farsi così tanto male da non sentire più niente, da non capire più nulla di quello che ci circonda? Io mi stordisco spesso di lavoro. Lo faccio per riempire il vuoto che ho nel cuore, eppure anche adesso — stanco per le mille cose fatte — non posso fare a meno di domandarmi se non esista, se non ci sia davvero qualcosa capace di riempire questo vuoto. Qualcosa che non preveda un’alterazione della mia coscienza, ma qualcosa che posso semplicemente amare e da cui farmi altrettanto semplicemente amare.
Vedete, anche chi è sposato da anni, chi fa mostra di non pensare ad altro se non a se stesso, chiunque, segretamente aspetta sempre questo… tutti hanno questo dolore dentro, questa promessa di bene tradita e questo senso di colpa innato che li tormenta. Tutti ce lo abbiamo. E l’unica risposta che ci hanno insegnato a dare, non con le parole ma con gli esempi, è stata quella di farci così male, di stordirci così tanto, da non sentire più niente oppure — al contrario — di far uscire la rabbia che abbiamo dentro e trovare una qualche forma di certezza, di risposta, nella violenza.
Subire il male o fare il male, altra verità tremenda da ammettere, in fondo ci fa stare meglio, ci fa sentire per un attimo vivi, esistenti. Me lo raccontate spesso quando accennate a tutto quello che fate, o che vi costringono a fare, per essere al passo con gli altri, con quelli che contano, con chi sembra essere — almeno da lontano — “una persona a posto”. E in voi non c’è gioia quando il vostro sguardo si perde nel ricordo di quegli istanti, ma solo paura, solo solitudine, solo dolore.
Io non so come si concluda una lettera come questa. Vi porgo solo le mie domande, le condivido con voi mendicando umilmente di provare insieme a costruire una qualche risposta: è davvero destino, dunque, che nella nostra vita vinca il male? È davvero destino che vinca il nulla? Davvero deve finire sempre così? Davvero la soluzione sta in un balcone, in un terrazzo, in una serata di sballo? Non è che forse tutto questo nostro tormento, questi nostri rimpianti, altro non sono che il segno più grande e potente che la nostra vita non può essere saziata da nulla e che il cuore altro non è che un’attesa dell’Infinito?
Io non so perché a volte certe storie finiscano così male, ma so che fin da quando siete piccoli tutto il mondo ha cercato di rispondere ai vostro desideri e vi ha illuso che la risposta che la vostra vita aspetta sia qualcosa che la sazi. Da uomo, da fratello, da cristiano, umilmente devo dirvi che non è così: la vita attende solo qualcosa che la ferisca e che, ferendola, la orienti e la faccia cominciare a correre. Sicura, decisa, intrepida perché amata. Non finisce tutto su quel balcone. E le vostre lacrime lo dimostrano. Perché l’amore da solo non basta. Occorre avere la certezza che quell’amore sia per sempre e che niente lo fermerà. È questa certezza che voi ed io, che tutti noi, attendiamo di veder finalmente fiorire nel nostro cuore. Comunque vada, chiunque siamo, qualunque strada abbia preso la nostra vita. Il nulla è solo un istante, solo una scorciatoia che il nostro cuore non vuole. Ed è per questo, per la consapevolezza di questo, che, quando meno ce lo aspettiamo, possiamo sentire sorgere dentro di noi il dono delle lacrime, la nostalgia di un Altro che da troppo tempo aspettiamo bussi alla nostra porta. E che, forse proprio ora, già ha iniziato a bussare.