C’è un tema che in qualche tipologia della prima prova dell’imminente maturità non solo potrebbe comparire, ma sarebbe bene che lo fosse, per essere sottoposto all’attenzione degli alunni. Un tema che riguarda la nostra storia attuale e la nostra storia passata. Il tema è quello del contrasto tra povertà e ricchezza, che si allarga alla comprensione dei motivi per i quali oggi la forbice tra le due condizioni è ancora ampia. Quali soluzioni prospettare perché si riduca questa faglia nella quale siamo immersi e dalla quale provengono tanti squilibri delle nostre società?
Troppi stimoli premono in questa direzione: ne hanno esplicitamente accennato sia il Papa che il presidente Mattarella nei reciproci indirizzi di saluto in occasione della recente visita di Francesco al Quirinale: occorre combattere le nuove sacche di povertà. Da parte sua l’attuale pontefice per mobilitare fattivamente le coscienze ha istituito la Giornata mondiale dei poveri per il prossimo 19 novembre 2017.
Se l’esame di maturità deve verificare anche il modo di partecipare responsabilmente alle necessità del nostro tempo, perché non offrire ai ragazzi l’opportunità di una riflessione in questo senso? Povertà e ricchezza hanno una dimensione statistica e storica, non v’è dubbio. Dal punto di vista statistico, la povertà e la ricchezza si misurano in relazione al Pil della nazione cui si appartiene, del livello di alfabetizzazione e della speranza di vita. Si tratta di quel complesso di fattori che definiscono il “tasso di sviluppo umano”. A leggere il “Rapporto sullo sviluppo umano 2016” del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo si resta amaramente colpiti: negli ultimi 25 anni più persone al mondo hanno allungato la speranza di vita, più bambini hanno frequentato le scuole e più gente ha avuto accesso ai servizi socialibasilari.
Eppure il progresso ha saltato (il Rapporto usa proprio questo termine: bypassed) interi strati di popolazioni che soffrono di esclusione, epidemie, cambiamenti climatici, migrazioni, conflitti provocati dalle violenze estremistiche. Se dal 1990 ad oggi la povertà nel mondo è globalmente diminuita di circa l’11 per cento, persistono drammaticamente le privazioni: i rifugiati sono 21,3 milioni; 100 milioni di persone soffrono di cambiamenti climatici; l’insicurezza a causa dell’estremismo violento si è diffusa in tutto il mondo. Chi soffre di più oggi sono donne e bambini, minoranze etniche e religiose, popoli indigeni, disabili e migranti: questa è la fotografia del nostro tempo e questa l’immagine delle nostre povertà.
Paradossalmente, anche la povertà ha subito un’evoluzione. Lo si può cogliere anche storicamente. Nelle società preindustriali la schiavitù, da non confondere necessariamente con la povertà, metteva d’accordo un po’ tutti. Tra gli uomini liberi le discriminazioni non avvenivano tanto a livello economico, quanto di partecipazione alla gestione del potere. Un nobile che non avesse beni era nello stesso tempo nobile e povero. Nell’antica Roma di fine Repubblica la rivolta di Catilina, nobili genere natus, di nobili natali, ma colpito da inopia rei familiaris, cioè mancanza di patrimonio, mirava al rovesciamento di un assetto di potere e all’instaurazione di una dittatura personale, non certo ad un obiettivo rivoluzionario o palingenetico. Le fasce sociali di condizione dimessa, anche se nobili, e quelle agiate anche se non nobili, agivano all’interno dell’unico sistema che nessuno si sognava di estirpare. Era anzi la cittadinanza che faceva gola e gli esclusi del tempo, i barbari, quando hanno potuto l’impero romano lo hanno ricostruito, plasmato, arricchito spiritualmente e culturalmente accogliendo il cristianesimo.
Durante il Medioevo e l’Antico regime si è andati avanti con rivolte e insurrezioni provocate dalla fame, cui le classi dirigenti hanno fatto fronte con politiche di contenimento dei prezzi o politiche assistenziali a favore dei poveri, in uso fino all’epoca moderna e oltre. La rivoluzione industriale ha però sbaraccato questo modo di intendere la questione, determinando una divisione del lavoro tra il lavoratore e il proprietario dei mezzi di produzione. La povertà cessava di essere una condizione esistenziale e diveniva un argomento sociale, dipendente cioè dal modello di sviluppo.
Durante l’epoca del capitalismo selvaggio, come hanno rilevato le encicliche sociali, il mondo del lavoro si è impoverito. “La rivoluzione — ammoniva la Rerum Novarum — ha prodotto la divisione della società come in due caste, tra le quali ha scavato un abisso: da una parte una fazione strapotente perché straricca…Dall’altra una moltitudine misera e debole, dall’animo esacerbato e pronto sempre a tumulti”. Tra Otto e Novecento le politiche assistenziali si sono rivelate insufficienti e la discussione tra addetti ai lavori si è concentrata sul giusto salario. Determinato da chi? Dal mercato o dalla lotta politica?
L’uscita dallo sfruttamento del lavoro si doveva realizzare, secondo l’ideologia comunista, tramite la transizione dal capitalismo alle società socialiste, dove gli stessi operai sarebbero i detentori dei mezzi di produzione. Sappiamo com’è andata a finire e ad ogni modo sia le società industriali sia quelle che hanno tentato la strada della pianificazione socialista hanno prodotto, seppure in modo diverso, povertà ed emarginazione. La piena occupazione, il pieno sviluppo non si sono ancora realizzati nonostante gli indubbi successi alla lotta alla povertà riscontrati nelle società altamente industrializzate, all’interno delle quali il capitalismo ha dimostrato, fino ad un certo punto, di sapersi riformare introducendo il welfare state.
A questo punto la storia e la statistica si toccano e il cerchio si chiude. Il nuovo volto della povertà si chiama oggi insicurezza, precarietà, isolamento e sradicamento. E il nuovo volto dello sviluppo si chiama pienezza umana, cioè crescita integrale dell’uomo. Profeticamente, l’enciclica Laudato si’ ammonisce: “…Aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze; il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro” (n. 139).
Prima ancora che una soluzione economica, quello prospettato in questo documento è un cambiamento di posizione, una svolta antropologica. Le diseguaglianze si affrontano guardando in faccia il nostro prossimo, interrogandosi sul suo vero bisogno, modificando il nostro modello di sviluppo ovvero lo stile di vita. Povertà e ricchezza sono oggi due facce della stessa medaglia perché in un mondo interconnesso la parte ricca del globo è investita dalla domanda della parte più povera che chiede non solo accesso ai profitti, ma soprattutto dignità, istruzione, integrazione. Chiudersi a riccio nel proprio guscio confidando nelle guerre tra i poveri, magari fomentate ad arte come strumento regolativo delle questioni, è una strategia suicida. Occorre piuttosto affrontare il compito di costruire una nuova civiltà dove ciò che si spartisce tra gli uomini è un senso del vivere comune che nasce dalla percezione di un bene ricevuto che è disponibile per tutti.