Uno degli aspetti certamente più interessanti della inesausta riflessione sulla professione docente riguarda l’impatto della tecnologia sulla sfera cognitiva e comportamentale da una parte, e su quella emotiva e relazionale dall’altra. Conoscere e approfondire questa tematica, essere vulnerabili al dubbio senza tuttavia nutrire eccessivi timori, porsi domande e confrontare esperienze sono ormai divenute attitudini imprescindibili per quanti si dedicano con passione all’educazione dei giovani.
Il testo di Paolo Crepet, Baciami senza rete. Buone ragioni per sottrarsi alla seduzione digitale (Mondadori 2016) offre, anche grazie ad ampi e significativi riferimenti bibliografici, un’attenta disamina sui mutamenti antropologici indotti dal massivo utilizzo delle straordinarie opportunità offerte dalla rete e costituisce pertanto un contributo estremamente interessante all’interno dell’attuale dibattito sul tema.
Una realtà analizzata dall’autore con grande equilibrio e con esplicite finalità: “Internet e la tecnologia digitale hanno rappresentato la più grande e straordinaria rivoluzione che l’uomo abbia mai potuto concepire, promuovere e vivere. Una rivoluzione democratica che ha permesso, per la prima volta nella storia, ai cittadini del pianeta di accedere a informazioni, notizie, culture senza che ciò possa essere fortemente condizionato dalla radice sociale ed economica, ideologica e politica di ognuno…Fatta questa doverosa quanto ovvia premessa, ciò che mi propongo in questo scritto è riflettere su alcuni effetti collaterali che questo straordinario sviluppo ha indotto nella maggior parte dei suoi più assidui consumatori, soprattutto i giovani. Mi rendo perfettamente conto di toccare aspetti economicamente rilevanti, tuttavia credo sia da tempo matura una visione disincantata del fenomeno, senza che ciò implichi una difesa aprioristica da parte di uno schieramento o di un gruppo di interessi economici. Nel contempo, credo che non occorra optare per una scelta anacronistica, né tornare a cinquant’anni fa, né scegliere una sorta di hikikomori (termine giapponese che significa “isolamento sociale”, “volontaria esclusione”) per essere di nuovo umani”.
L’insistenza sull’essere umani — non siamo antitecnologici, siamo umani — percorre tutto il testo, ne costituisce in qualche modo l’ossatura ideale e consente così all’autore di addentrarsi con impietosa lucidità nelle pieghe degli effetti collaterali prodotti dalla rete e, d’altro canto, di delineare dal punto di vista cognitivo ed emotivo i tratti salienti di quella umanità la cui profondità e bellezza occorre custodire e incrementare. La citazione di Albert Einstein posta nelle pagine iniziali — “Temo il giorno in cui la tecnologia andrà oltre la nostra umanità: il mondo sarà popolato da una generazione di idioti” — indica così in qualche modo la coraggiosa, e provocatoria, prospettiva critica che orienta la riflessione e costituisce il fondamento dell’insistita convinzione dell’autore che “la tecnologia digitale è, e deve rimanere, uno strumento, non un fine”.
Il primo aspetto di umanità che rischia di essere compromesso da un utilizzo non disciplinato dei dispositivi digitali riguarda il valore della manualità: “Una scuola è essenzialmente la fucina per diventare adulti, quindi deve cogliere e offrire ciò che oggi sta venendo a mancare alla crescita dei bambini: non solo l’esperienza del limite, dunque del dolore (oggi la tendenza è verso una pedagogia anestetizzata) e della frustrazione, ma anche quella sensoriale, che non può prescindere da una riabilitazione manuale… La manualità ha un potenziale strategico fondamentale. Rende concrete due opportunità: imparare a stare da soli senza perdere la propria identità e crescere valutando la propria autostima. Se un bambino impara che, con le proprie mani, può costruire il suo mondo, prende coscienza che esiste qualcosa d’insopprimibile, replicabile e inalienabile, ovvero la misura e la prospettiva della propria libera identità. Contemporaneamente, costruendolo e difendendolo, realizza le sue capacità, verifica il proprio talento: comincia a capire cosa sa fare da solo, e in questo non inizia soltanto a sagomare la propria autostima, ma a gustare l’ebrezza della propria crescente autonomia. Ciò non significa affatto celebrare la propria bolla d’aria, la propria monade esistenziale, ma maturare il diritto di stare al mondo senza dipendere, necessariamente, da nulla e da nessuno”.
In termini più generali, la possibilità dell’acquisizione della consapevolezza di sé attraverso l’esperienza sensoriale viene ribadita in un altro punto significativo che ha come presupposto la stima per l’intimo valore della persona: “Solo se ogni bambino imparerà a conoscere e a utilizzare il meraviglioso armamentario che custodisce dentro di sé, potrà pensare di camminare con le proprie gambe e di ragionare con la propria testa. Se, invece, le esperienze si baseranno soltanto su ciò che la virtualità gli avrà insegnato, crescerà anestetizzato, insensibile (nel senso letterale del termine)”.
Sempre all’interno della riflessione sulla centralità della dimensione umana nell’era della tecnologia digitale, una serie di considerazioni di notevole interesse ruota attorno alla natura del pensiero e del suo sviluppo. In particolare l’autore si sofferma sulla dimensione della creatività esaminata a partire da una considerazione di Steve Jobs riportata nel testo: “C’è una tendenza nella nostra età della rete a pensare che le idee possano essere sviluppate attraverso una mail o una chat. E’ una follia! La creatività nasce da incontri spontanei, da discussioni casuali. Tu incontri qualcuno, chiedi cosa sta facendo, e dici: ‘wow’. E immediatamente stai cucinando una nuova idea”.
L’autore si sofferma così sull’importanza del contesto come alveo necessario per il fiorire della creatività che sarebbe dunque favorita in particolare da due elementi: la necessità e l’impollinazione: “La necessità è intesa come fame. Nasce dalla frustrazione e dalla noia: se non vi fossero questi due sentimenti, non vi sarebbe nemmeno il contrario, ovvero l’invenzione, l’intuizione del nuovo. Perché l’innovazione funziona come la fucina della migliore scrittura: deve nascere da un’impellenza. Se un’intera generazione, come quella nativa della tecnologia digitale, ha avuto tutto in regalo, è difficile che abbia fame di qualcosa di nuovo, pensa di non averne bisogno, dunque non crea… La necessità, tuttavia, è necessaria ma non sufficiente a produrre creatività, occorre un secondo elemento: l’impollinazione, ovvero la possibilità di essere vicendevolmente contaminati… Se a un giovane oggi viene impedito di ascoltare le proprie necessità e negata la possibilità di essere impollinato in che modo potrà creare quello che non c’è? Al massimo potrà diventare uno dei creativi del ‘copia-incolla’ dalla rete”.
La relazione con l’altro, a partire dal riconoscimento del bisogno, costituisce nella visione prospettata da Crepet una sorta di conditio sine qua non per la crescita della persona. Al contrario, quando una persona nasce e cresce con la netta convinzione che molto del necessario sia tra le sue mani, si creano i presupposti per un imperante e solipsistico individualismo che, da un punto di vista sociopolitico, si viene a configurare in quella che l’autore definisce selfish community, comunità egoista. Eccone descritta la genesi: “Essa si viene a creare quando il bene comune finisce per coincidere esattamente con il bene personale (e non viceversa), quando le relazioni sociali esistono nella misura in cui servono all’individuo per soddisfare il proprio ego”.
Nelle pagine conclusive del libro, Crepet, attraverso il racconto di un episodio della sua infanzia, ci restituisce il senso profondo di questa sua vibrata riflessione e sollecita in modo evocativo e poetico la nostra responsabilità di educatori. Il fatto narrato riguarda l’occasione che ebbe a dieci anni di osservare l’eclissi totale attraverso un pezzo di vetro affumicato: “Il mondo, con le sue meraviglie, si stava presentando a me in quella fredda e tersa mattina d’inverno: quel giorno imparai a meravigliarmi, a lasciarmi avvolgere dall’immensa bellezza della vita…avevo cominciato a comprendere che l’esistenza va osservata dal basso verso l’alto, lungo la direzione della curiosità… Se un bambino avesse visto quell’eclissi attraverso uno smartphone, non se la sarebbe ricordata mezzo secolo più tardi, ma soprattutto lo sguardo attonito al cospetto del grande buio di quel mezzogiorno, invece che metafora della ricerca dell’infinito si sarebbe sedimentato in un sentimento di paura e in una rinuncia… Non credo che dobbiamo meditare tra un’esistenza ipertecnologica e una ritirata dalla contemporaneità. E’ questa vita — al lordo delle invenzioni e delle meravigliose novità — che dobbiamo trovare la gioia di reinventare. Per non privarci stupidamente di quel pezzo di vetro che permette di vedere l’impossibile…”.
Una bella e utile sollecitazione dunque la lettura del testo di Crepet, per ricentrare criticamente i termini essenziali di una adeguata riflessione sull’educazione: il soggetto e la realtà.