Caro direttore,
questa giornata del 25 aprile è stata per me una giornata di riflessione. Martedì ho fatto una lezione sul 25 aprile in una mia classe e ne sono uscito, come si suol dire, “scornato”: alla fine dell’ora ho capito che tante cose non le sapevano, ma anche che la questione, nonostante il mio impegno, non li interessava più di tanto. Sono stati gentili, hanno anche lasciato che io raccontassi per bene un pezzo della nostra storia, ma come qualcosa di lontano, di così lontano da farmi capire, con molta chiarezza e sincerità, che acqua passata non macina più.
Mi si è nuovamente palesato il problema del mio rapporto con questa generazione, quello che spesso io penso di identificare in un’assenza di interesse per la storia, ma questo nuovo fallimento mi ha posto una domanda molto diretta: e se non fossero loro — i miei studenti — il problema, ma il modo con cui io li trascino dentro la storia?
Oggi (ieri, ndr), 25 aprile, questa domanda mi è affiorata continuamente alla mente, esattamente come il modo maldestro con cui martedì ho parlato loro della Resistenza, del fascismo, di Mussolini. Mi è parso chiaro che ho sbagliato io, perché sono partito, in modo forse un po’ positivistico, dal “dato” invece che dagli studenti, col risultato di scaricare su di loro le mie motivazioni; mentre i miei studenti e le mie studentesse mi hanno fatto capire che questo approccio è poco interessante: sarebbe come dire che devono interessarsi alla caduta di Mussolini o alla lotta partigiana perché sono fatti accaduti. Lo capiscono tutti che questo non è ragionevole. Infatti, quando ho attaccato la lezione e ho detto 25 aprile, un ragazzo ha risposto d’impeto: “ah, la Currem con il coer in man?”, il nome locale di una corsa podistica organizzata dall’oratorio. Io ho riso amareggiato di tanta ignoranza, ma è proprio lì che ho sbagliato: dovevo partire da quella corsa e vedere se mi portava al 25 aprile. Era proprio quella corsa ciò da cui iniziare. Occorre partire dall’io, da ciò che vibra in esso, per arrivare al dato e non viceversa.
I miei studenti mi hanno dato così una grande lezione. Resistendo al mio approccio, mi hanno fatto capire in modo discreto che in educazione si parte sempre dall’altro, dalla sua esperienza della realtà, non da un dato che si vuole inculcare nella testa degli altri, per quanto interessante e meritevole esso sia. E’ stato un felice rovesciamento di prospettiva.