In un’intervista al Messaggero del 2 gennaio il ministro Bussetti ha disegnato l’anno che attende la scuola italiana. In particolare si è soffermato sulla questione della scelta dell’indirizzo di studi nella scuola superiore, che da lunedì coinvolgerà centinaia di migliaia di famiglie, e ha fatto alcune considerazioni condivisibili. Ha sottolineato infatti il valore dell’istruzione tecnica e professionale — «All’interno di questi istituti si formano le eccellenze del Made in Italy» — ed ha auspicato un maggior coinvolgimento delle imprese in queste scuole.
Da vecchio insegnante, che ha visto decine e decine di ragazzi alle prese con le conseguenze nefaste di scelte sbagliate, e che in particolare quest’anno si occupa proprio dei ragazzi in difficoltà delle classi prime di un istituto tecnico della periferia milanese — cioè di ragazzi che in gran parte hanno sbagliato scelta — non posso non fare qualche considerazione.
Prima considerazione, lato famiglie. Sembra incredibile, ma ancora oggi il sentire comune delle famiglie italiane è quello di venti, cinquanta, cento anni fa: la scuola superiore “vera” è il liceo, tutte le altre sono di serie B (gli istituti tecnici), serie C (gli istituti professionali), serie D (la formazione professionale). Non è vero, non è vero, ma come si fa a far entrare nella testa dei genitori che non è questione di più e meno, meglio e peggio, ma solo di diverso?
Provo con una storia vera. Tanti anni fa, il figlio di una famiglia di amici andava malissimo a scuola, lui voleva fare il meccanico, loro — gente molto semplice — volevano che il figlio “studiasse”. Non per prestigio, in questo caso, ma proprio perché volevano che potesse avere più possibilità di quelle che avevano avuto loro. Sono riuscito a convincerli a trasferirlo in un centro di formazione professionale per meccanici. È rinato. Finito il triennio ha voluto continuare, ha fatto quarta e quinta, si è diplomato perito. Si è iscritto all’università, è diventato ingegnere, lavora alla Ferrari. È un’eccezione, si dirà. Lo so, è un caso eclatante; ma quante decine e decine di ragazzi ho visto rinascere passando a scuole più congeniali alle loro attitudini, ai loro interessi… Ci sono ragazzi diversi, ci sono scuole diverse: che bello se ciascuno potesse scegliere la più adatta a sé.
Seconda considerazione, lato scuole. Gli istituti tecnici e gli istituti professionali, oggi, sono fatti male. Una volta fin dalla prima si entrava in officina — in laboratorio, nel campo, quel che era —, si usavano le mani, e la testa man mano seguiva, i ragazzi erano guidati a capire che, proprio per far bene il mestiere, servivano un sacco di nozioni, di competenze, e non solo professionali. Poi l’ideologia li ha rovinati. Non è giusto — hanno detto i soloni dell’uguaglianza — che i figli degli operai facciano una scuola così, hanno diritto anche loro a una formazione culturale (come se prima non la ricevessero comunque). Così, nei primi due anni basta officina, basta laboratori. In prima e in seconda — dagli anni Novanta negli istituti tecnici, dal 2010 anche nei professionali — non ci sono più materie pratiche, ma formazione culturale generale: diritto, economia, chimica, fisica, scienze naturali… Tutte cose bellissime, naturalmente; solo che hanno un difetto: bisogna studiarle sui libri. Esattamente quel che i ragazzi che arrivano negli istituti tecnici e professionali non vogliono fare. Non tutti, naturalmente: solo il 40 per cento (è questa la percentuale dei bocciati fra prima e seconda). I sopravvissuti cominciano le materie professionalizzanti in terza.
A cavallo tra i due fronti, sta — dovrebbe stare — l’orientamento. Dico dovrebbe perché non funziona, se un sacco di miei studenti mi dicono che loro sono venuti lì perché pensavano di cominciare subito ad andare in officina: nessuno ha spiegato a loro e alle loro famiglie come stanno davvero le cose? Nessuno ha detto che ci sono i centri di formazione professionale, con i loro benemeriti corsi triennali, che aprono alla cultura a partire dal mestiere?
Esagero? Anni fa, alla cena di fine anno realizzata dagli allievi di un corso di cucina, il dolce erano riproduzioni di quadri famosi realizzati con diverse tonalità di cioccolato: quelli l’arte non la scordano più. Certo, se una mia collega mi dice che credeva che le qualifiche rilasciate dai Cfp avessero valore solo all’interno della Regione, quando invece sono riconosciute a livello europeo, la strada da fare è molta…
Appendice. Leggo che il ministro parla di riforma degli istituti professionali. Non ho idea di che cosa abbia in mente. Mi auguro che abbia il coraggio di andare controcorrente, e di tornare a mettere i ragazzi in laboratorio fin dalla prima. Ma non so quanto essere fiducioso. Infatti leggo che «Le imprese possono essere un valido alleato in questo cammino», e sottoscrivo; solo che leggo anche che la «revisione dell’alternanza scuola-lavoro metterà di nuovo al centro l’acquisizione di competenze trasversali. Niente apprendistato occulto», e mi viene un brivido. Perché è l’eco dell’antica polemica ideologica, quella che dice che l’alternanza sarebbe un regalo alle imprese, manodopera gratuita al loro servizio. Quella che – come dicono tanti miei colleghi – i ragazzi devono stare a scuola perché imparano di più. Solo che la realtà è diversa. Per le imprese serie, l’alternanza è un impegno, perché devono destinare risorse ai ragazzi, che producono ben poco. E i ragazzi sono, nella stragrande maggioranza, contentissimi delle esperienze fatte in azienda (poi, certo, il paradiso è altrove, casi negativi da sbandierare come prova della propria tesi si trovano sempre).
Per non parlare — ma qui il discorso si farebbe troppo lungo — delle non poche imprese che hanno avviato, in partenariato con scuole lungimiranti, progetti di formazione innovativi, che mirano davvero a dare ai ragazzi quelle competenze di cui hanno bisogno oggi. Chissà che non siano queste esperienze a scardinare impianti obsoleti.